domenica 22 dicembre 2013

SA FESTA DAE S'ARBARÈE CHENA LIANORA.

(La festa dell'Arborea che dice no al Progetto Eleonora)

Da sempre mi appassiona l'agricoltura. Riesce ad intrattenermi tutto ciò ad essa connesso; persino il “tractor drag” di Arborea.

Mi piace sottolineare un aspetto che differenzia questa competizione dalle versioni classiche. La tradizionale slitta su terreno battuto, è infatti sostituita da un rimorchio carico di blocchi di pietra, trainato su un percorso elevato composto da un terrapieno poco compattato, quindi piuttosto affondevole.

Questa specificità aggiunge una nota originale: non sempre i trattori più prestanti e moderni hanno l'onore di superare la prova! Le insidie del terreno di gara richiedono accorgimenti che solo l'ingegno artigianale sa fronteggiare. Come dire: la forza bruta e la tecnologia di ultimo grido, in questa vita, non son tutto!

Ma sto andando fuori tema. Non intendo infatti trattare di competizioni su trattrici, ma di qualcos'altro di cui il certame arborense è solo il felice pretesto.

Tra gli striscioni che addobbavano la festosa manifestazione di quest'anno, uno - a ben visibile altezza - recava la seguente frase: “No al Progetto Eleonora”.

Progetto Eleonora. Quest'elaborato eufemismo esprime una concessione che la Società Saras ottenne dalla Regione (nel 2009 ?), per tastare la presenza di idrocarburi nel sottosuolo di una vasta area dell'Oristanese. Il progetto, a prima vista allettante sia per le possibilità di posti di lavoro che per disponibilità di energia locale a basso... costo (mmh!), si rivelerebbe non idoneo su vari fronti: eccessivo impatto ambientale, reali benefici economici limitati, ingenti danni alla vocazione agro-zootecnica della zona, esproprio di un bene naturale che va amorevolmente gestito solo dalle Genti sarde, alle quali la vita affidò questa bella porzione del pianeta. Da non tralasciare un conturbante dettaglio: la Saras non è precisamente un'associazione di beneficenza: anzi tutt'altro (le disavventure di Sarroch e dintorni sono lì, a - spero non perenne - monito).

Non è la prima volta che la fama della grande Giudicessa viene abusata per camaleontizzare manovre nocive alla sovranità territoriale.

Andrebbero aggiunti molti dettagli per spiegar a fondo il Progetto Eleonora; ma tecnicamente non ne sarei capace e probabilmente chi mi sta leggendo ne sa molto più di me (internet offre discrete illustrazioni, a favore e contro).

Desidero semplicemente riflettere su come l'energia positiva contenuta in quella frase esposta in grande al tractor pulling, possa rendere una festa molto più salubre, godibile e prolungata.

Festa e Progetto Eleonora; e dove sarebbe il nesso?! Mah! Forse non c'è nesso alcuno. A me però piace vedercelo. Perché probabilmente molti di quei trattori tirati a lustro per il drag, siano gli stessi che con la loro mole difesero Eleonora dalla non gradita omonima: quella del... Progetto, per appunto.

Ma cos'è la festa? La si potrebbe definire l'espressione più coreografica “dell'intrinseca bontà della vita” (Leonardo Boff, El Sentido del Humor y de la Fiesta, Servicios Koinonia, 2008).
L'uomo possiede una naturale tendenza a fare ordine nel proprio esistere, attraverso puntuali valori di riferimento (cfr. P. Berger; E Vogelim); la festa potrebbe rappresentare il momento più estatico di tale tensione, la celebrazione degli sviluppi della vita buona che da quell'ordine scaturisce.

La festa perciò, è in se stessa un'esperienza umana di godimento buono (cioè: bello) e intenso; o almeno così dovrebbe essere.

Alla base del desiderio di festa come “fatto” della bontà della vita, possono preesistere due situazioni esistenziali. Una potrebbe essere quella appena accennata, ovvero: positive tensioni quotidiane che confluiscono nella celebrazione di una condensata soddisfazione. Penso alla maggior parte delle sagre ancestrali di Sardegna (ma non solo), scandite dai ciclici frutti dell'agricoltura e della pastorizia.

La seconda situazione (motivante la festa) potrebbe essere quella esattamente contraria: frustrazione per la mancanza di quell'ordine essenziale che conferisce bellezza alla vita; oppressione e insoddisfazione che tinge di monotonia il quotidiano. Una pressione esistenziale che trova nella festa una valvola di sfogo, l'unico modo per ricreare - almeno per un breve lasso di tempo - la sensazione di un'armonia che nel resto dei giorni non v'è a sufficienza.

Forse è per questa ragione che in molti Paesi del mal chiamato Terzo Mondo, paradossalmente, le feste sono vissute con maggior inversione di emotività, di fantasia e di tempo. Un atteggiamento spesso da noi non condiviso per l'apparente contraddizione che reca in se'. Invece si tratta, probabilmente, della reazione più umana che si possa avere di fronte alle frustrazioni del quotidiano; quasi a dire - come già sopra - che attraverso la potente sollecitazione dell'umore e della fantasia (cfr. Boff, op.cit.), si cerca di assaporare quella vita buona che il quotidiano non riesce ad offrire.
Esiste però il rischio di sfociare nell'euforia fine a se stessa o nella deriva di un rituale dai tratti orgiastici, atto a stimolare in eccesso gli appetiti, facendoli poi ripiombare nel grigiore quotidiano con maggior frustrazione. In questo caso la festa si ridurrebbe in parabola che parte dalla mestizia e ad essa fa ritorno. Anche le civiltà opulente, forse per altre cause, conoscono queste nocive oscillazioni.

L'autentica festa si nutre di un quotidiano soddisfacente e nutre a sua volta il quotidiano, attraverso un salutare dinamismo di reciprocità. L'autentica festa, detto in altri termini, è sostenuta da un quotidiano dignitosamente passabile, costruito in armonica relazione con se stessi e con gli altri, nella realzione col divino (per chi vive questa scelta), nel rispetto verso la terra quale fonte di vita, nei personali e comunitari valori di riferimento vissuti in buona fede, aperti all'alterità arricchente e difesi con fermezza quando necessario.

È in questo contesto di festosa celebrazione (e salvaguardia) della vita buona  che a par mio s'inserisce quel “No al Progetto Eleonora”.

Alcuni hanno interpretato il messaggio di quella frase come svantaggioso (quindi non festevole), adducendo che non si può crescere coi No”. Un'osservazione piuttosto lacunosa. Perché in realtà bisognerebbe analizzare quanti potenziali “sì” possono motivare un “no”, e quanti inibitori “no” può vomitare un “sì” concesso incautamente.

Gli ultimi centocinquant'anni della nostra storia - giusto per avere un riferimento delimitato – hanno pagato caro le facili concessioni verso invadenti saccheggiatori (pubblici e privati) dal sorriso di gomma; spesso applauditi quali salvatori dell'economia, e al contempo - sig! -  sovvenzionati  da noi stessi e dall'ordine costituito. Perché la verità, nelle sue reali proporzioni, è che siamo stati noi - a nostre spese! -  i benefattori e la fortuna di questi individui.

Il “no” delle Genti arborensi - pazientemente sensibilizzate da comuni cittadini (in buona parte giovani) – è scaturito dalla cosciente intuizione di come un ennesimo “sì” avrebbe riproposto quei medesimi  espropri di felicità  (perché alla fine di questo si tratta).

La costante sensibilizzazione ha centrato gli obiettivi, abilitando quelle Comunità a reggere il confronto con gli stessi rappresentanti della Saras, attraverso contro-argomenti di solida oggettività.

È a causa di questo protagonismo consapevole che quel “no” acquista valenza propositiva. Dietro quel “no” ci sono i tanti “sì” di un Popolo che prende in mano il proprio vivere, senza lanciarsi in pasto agli squali ammaliatori della non-politica e della finanza brutale. Dietro quel “no” c'è il “sì” alla parsimonia che rifiuta lo sfruttamento compulsivo dell'ambiente; il “sì” che si fa amore garante e previdente verso i figli e i figli dei figli. Dietro quel “no” c'è il “sì” alla sana politica, che ha luogo soltanto quando è la stessa polis a gestire la polis, senza burattinai dagli opachi canovacci prestabiliti.

Il risultato di questa scelta è felicemente tangibile: le previste trivellazioni non si sono realizzate; e se la popolazione – come spero – manterrà fermezza, quelle trivellazioni mai ci saranno.

Si tratta di un avvenimento di enorme portata, da plasmare in tutti i libri di storia sarda, perché sbugiarda con ampio stacco la presunta irremovibilità di quel servile fatalismo (sedimentato nell'animo di sempre meno Sardi) basato sulla supposta aprioristica impossibilità di far fronte ad ogni sorta di stupro calato dall'alto (vuoi dal Governo Italiano, da decisioni internazionali o da iniziative della finanza privata).

Nell'Isola persistono le macchinazioni egemoniche dal sapore diabolico; ma stiamo al contempo scoprendo che, se vogliamo,  il vento può cambiare a favore.

Superando certa tendenza alla comodità delegante... assaporando l'umanizzante soddisfazione che scaturisce dalla sovranità esercitata... convogliando criteri verso un'esistenza dall'economia dignitosamente essenziale (l'unica che possa permettere al pianeta di sostenerci), potremmo... potremo... possiamo reinserirci, in gradevole progressione, nella più autentica nostra essenza: quella di persone vocate - per intrinseco diritto - alla vita buona.
                                                                               
                                                                            Ignazio Cuncu Piano

martedì 10 dicembre 2013

SENTINELLE DELLA POLIS.

Dopo alcune voci circa un'eventuale candidatura alle Regionali sarde, don Ettore Cannavera (d'ora in poi: d'E) chiarisce che: niente di tutto ciò. Si limiterà a creare e accompagnare un movimento politico-culturale chiamato “Terra di pace e di solidarietà” (tenuto a battesimo alcuni giorni fa). Un Movimento aperto a tutti, la cui parola d'ordine è bella e chiara: “essere le sentinelle della politica”. Un impegno che ogni cittadino dovrebbe portare avanti normalmente; un indispensabile “sensus rei publicae” che d'E desidera ridestare nel Popolo sardo.

Trovo interessante che tale iniziativa sorga da un uomo che ha fatto della propria esistenza un autentico “atto politico”, ovvero: un servizio normale ed efficace alla comunità.

Ma chi è nella vita quotidiana d'E? Una persona encomiabile. È cappellano nel carcere minorile di Quartucciu e fondatore della comunità “La Collina” (sita nelle campagne di Serdiana): un centro per il reinserimento dei carcerati nell'ambito sociale e laborale. Ebbi qualche contatto con lui anni fa; un interscambio di idee ed esperienze, poiché anch'io ero impegnato nella pastorale carceraria. Il suo essere uomo di Dio che s'imbratta mani e piedi nelle melmose strade della marginalità, mi fu di grande esempio. La genuinità del metodo adottato (nella comunità La Collina), parla di un uomo competente, intelligente in pensiero ed azione, capace di rivitalizzare - attraverso un valido progetto rieducativo - la fiducia e la libertà responsabile in persone sulle quali in pochi osano scommetterci su. Grazie al suo carisma riesce ad immettere i giovani detenuti all'interno di relazioni nuove e di forte stimolo , attraverso periodici incontri di carattere culturale con: studenti universitari, magistrati, politici, impresari, sacerdoti, giovani impegnati, … . Chi è stato a conttatto con i carcerati, sa quanto sia importante inserirli in ambiti sociali alternativi ai loro soliti.

Sono felice che d'E non abbia accolto l'idea di possibili candidature o robe simili. Non sarei stato d'accordo, per gli stessi motivi da lui addotti. La pur nobile militanza politica, tranne casi molto particolari, non si confà a un presbitero (cfr. Diritto Canonico, 278-§3; 285-§3; 287-§2).

Un sacerdote ha mille altri modi per fare politica (servire le persone): la vita di d'E, come già sopra, ne è palese dimostrazione.

Ho potuto osservare come alla convocazione di Serdiana si siano concentrate entità partitiche in apparenza eterogenee. Volendo orientarmi all'ottimismo, potrei ritenere ciò di buon auspicio. Non posso però evitare due perplessità che mi sorgono spontanee.

La prima è rivolta alla possibile strumentalizzazione (da parte di alcuni) della buona fede di questo sacerdote. Mi riferisco ad un eventuale velato calcolo opportunista, in base al quale alcune entità partitiche isolane, ormai desprestigiate(si) e perciò esposte ad esigui esiti elettorali, potrebbero tentare di imbrillantare la propria livrea attraverso la luce riflessa delle doti carismatiche di d'E.

La seconda perplessità centra l'attenzione sull'interrelazione tra l'onestà dei singoli e la struttura globale (leggasi: progetto reale) de partito di appartenenza. Cerco di spiegarmi.

d'E porge a tutti un forte invito ad un'etica lineare. Bisogna però constatare che in certi gruppi politici tutto ciò è strutturalmente impossibile . Detto in altri termini: l'onestà del singolo politico viene mortificata dagli ambigui interessi sedimentatisi al vertice dei partiti d'appartenenza. La stretta dipendenza dagli ambiti finanziari e poteri vari posti altrove, li rende remissivamente complici di strategie economiche che tutt'ora fanno della Sardegna una colonia. Come potrebbe un politico sardo (affiliato a queste entità), seppure retto da onestà, sostenere i sani interessi di casa propria nel vortice di tale forza centrifuga?

Quest'inadeguatezza etica strutturale, senza previa capacità di autocritica, renderebbe del tutto infeconda la pretesa di partecipare ad incontri dal genuino sapore di polis come quelli di Serdiana.

La triste verità è che i tradizionali gruppi politici italici, al momento non hanno niente da dire e da dare in Sardegna, semmai abbiano mai dato qualcosa nel passato. Il loro humus è stantio e  non adatto ala nostra realtà. Soltanto una rifondazione che contempli ferma distanza dagli intrallazzi della finanza, dai troppi privilegi e quant'altre cose (a cui non sanno rinunciare), potrebbe rilanciarli in credibilità.

Quest'ipotetica rigenerazione di fondo è lontana anni luce dal presente e sarebbe illusorio pensare che possa darsi nel poco tempo che ci separano dalle Regionali 2014.

Ad ogni modo, a prescindere dalle mie congetture, l'iniziativa di d'E è in se stessa un'impresa di alto valore civico.

Auguro di cuore che le riunioni di Serdiana possano raggiungere gli obiettivi preposti (tra cui il più centrale: ridestare la speranza nella gente). Auguro che siano dense di novità, partecipate da tanta gente comune (la vera polis). Auguro che abbia successo nell'intento di setacciare ciò che è politica da ciò che non lo è. Auguro che possano catalizzare in un dialogo proficuo quelle realtà isolane caratterizzate dalla stessa nobiltà di fondo.

L'esistenza di nuove conformazioni, chiare nei contenuti essenziali e con accento fortemente locale (Liste Civiche, ...) è infatti una realtà sempre più tangibile nell'Isola. Si tratta di realtà ancora variopinte, ma che in alcuni casi stanno procedendo verso un amalgama fondato su progetti di più ampia portata. Progetti che perseguono il recupero della “vivibilità della vita” in armonia col proprio territorio. Si tratta di un obiettivo urgente, essenziale, che ha a che vedere con il ripristino di una felicità esistenziale alquanto carente fra le nostre Genti.

Un obiettivo da perseguire a testa alta e con fermezza, anche quando ciò significhi andar contro certe politiche egemoniche che lo Stato Italiano continua ad adottare, imperterrito: sul suolo... sulle acque... sui cieli... sulla carne dei Sardi.

                                                                                                               Ignazio Cùncu Piano.

venerdì 6 dicembre 2013

IL "MADE IN ITALY" D'IMPORTAZIONE.

Quando mi arriva all'orecchio la cantilena del “Napoletani contraffattori!”, penso con tristezza all'ipocrisia che soggiace a tale luogo comune. Perché in verità, dietro il dito della ritrita squalifica verso le Genti partenopee, si nasconde in fila indiana un... lungo esercito di contraffattori “il-legalmente riconosciuti”, tra cui la stessa Comunità Europea!

Alcuni giorni fa, una folta rappresentanza di agricoltori italiani ha invaso la frontiera del Brennero ed ha bloccato diversi camion carichi di prodotti Made in Italy importati da altri Paesi UE.

C'è da chiedersi come possano - le rigide norme Europee - conciliarsi con tale palese contraddizione.

Gli agricoltori non sono facili agli scioperi. Abituati a non ricevere niente da nessuno e a sudare spesso più del dovuto i propri profitti, scendono in piazza solo quando arrivano al limite della sopportazione. L'agricoltura italiana è stata (ed è) inibita a dismisura dalle norme europee.

Infatti, mentre il Governo Italiano fa finta di risolvere i problemi dell'occupazione, migliaia di persone, nel settore agricolo, perdono lavoro a causa di carne, latte (e prodotti vari) che entrano nel Bel Paese (provenienti da: Belgio, Germania, ...) con mentito marchio patrio.

Un ironico plauso al merito andrebbe alla Germania; la presunta scolaretta modello nella scolaresca delle Dodici Stelle, che pretenderebbe "compiti ben fatti" dagli altri.

È cosa strana che a questa manifestazione abbia patecipato - sommandosi alla protesta (?!) - il ministro italiano delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, ovvero: colei che avrebbe dovuto difendere a priori e nelle competenti sedi la genuinità dei marchi d'origine, ma che in realtà non può far niente.

Insomma: la tanto conclamata UE sta smantellando l'Italia, penalizzandola su troppi fronti. Penso al famigerato euro : il terrore delle casalinghe, vale a dire: la rovina dei bilanci familiari.

Ci si dovrebbe chiedere ogni tanto, perché verbigrazia, l'Inghilterra non volle entrare nel “Club dell'euromoneta”, e perché - guarda caso! -  la signora Margaret Thatcher pronosticò (in vista dell'entrata in vigore della moneta unica) un catastrofico avvenire, soprattutto per le Nazioni Mediterranee.

È chiaro che la moneta euro in se' non ha nessuna colpa; ma il contraccolpo economico che hanno dovuto subire i cittadini italiani al momento del cambiamento di valuta, è stato vergognoso da parte del Governo o di chi per lui l'abbia permesso. Praticamente l'entrata in vigore dell'euro ha quasi dimezzato il patrimonio delle famiglie. Un dimezzamento dal quale ancora non ci si è ripresi. Un ingiustizia che grida vendetta agli occhi di Dio!

I pur comprensibili sacrifici in vista della "Casa Comune", non possono tollerare l'eccesso di operazioni chirurgiche tanto cruente, che non incoraggiano certo il processo unitario europeo.

La perdita della sovranità monetaria non è stata sostituita da un meccanismo che permetta all'Italia e ad altre Nazioni di far valere l'alta qualità dei propri prodotti. Gli stessi parametri di qualità, ribassati in certi casi dall'UE (penso, giusto per fare un esempio in apparenza banale: al cioccolato italiano, non secondo a nessun'altra Nazione), non hanno giovato alla personalizzata bontà della tradizione Made in Italy. Morale della favola: si ha l'impressione che nell'UE ci sia qualcuno che faccia il furbetto, ribassando le "altrimenti troppo competitive" qualità altrui e/o... rubacchiandole quando possibile!

Ma il Governo Italiano pare sia d'altra opinione: avanza imperterrito affermando con ottusa solennità che “UE è bello, è giusto, è doveroso!”, e, al contempo, continua a calarsi braghe e mutandoni, immolando il tessuto produttivo del Paese, sotto le mentite spoglie di doverosi sacrifici in vista di un futuro che paventa un torbido epilogo.

Non sono contrario all'UE, a quella pensata dai Padri Fondatori, i quali prevedevano una graduale unità in primo luogo politica/culturale, e soltanto in seconda istanza economica. Per quanto concerne quest'ultimo aspetto, questi grandi statisti, in buona parte cattolici, s'ispiravano alla dottrina sociale della Chiesa, incentrata su un economia funzionale alla persona, al lavoratore (cf Leone XIII, Rerum Novarum; Pio XI, Quadragesimo anno; la dottrina sociale di Pio XII) e costantemente protesa a dignificare-sollevare le fasce umane più deboli.

L'assetto attuale, al contrario, trova la sua genesi in una frettolosa-omologante unità economica che non riesce a mantenere equanimità e proporzionalità per tutte le Membra del Corpo, che sa generare situazioni di crisi a tavolino. Non tutela ma altera i tradizionali ritmi economici delle Nazioni di appartenenza, in base a rigidi e ambigui dettami di non chiara provenienza. Nemmeno la vita e la famiglia nella sua naturale essenza (base di ogni società e di ogni economia) è protetta adeguatamente: anzi il contrario (ma questo è un altro argomento, che implicherebbe un articolato discorso a parte).

Un'Europa vincolata a tali presupposti... non mi entusiasma. Anzi: mi preoccupa.
                                                             
                                                                                                               Ignazio Cuncu Piano.

giovedì 14 novembre 2013

MINACCIATI DA UNA MINUSCOLA CROCE.

Apprendo dal quotidiano di ieri: una giornalista della NrK, prestigiosa tv pubblica norvegese, è stata oggetto di una singolare chiamata d'attenzione da parte dei superiori. Motivo? Una minuscola croce (portata abitualmente al collo dall'annunciatrice di quest'informativo) è stata notata da dei telespettatori che, pare, si siano sentiti minacciati e offesi (??). Altri ancora vi avrebbero letto un segnale di non imparzialità da parte della rete televisiva.

Mi chiedo: se quella giornalista avesse avuto al collo un un piccolo simbolo dell'Om induista, o il gioiellino trigemmato buddhista, la mezzaluna con la stellina, la stellina a sei punte, un minuscolo menorah, il simbolino del Buon Pastore, del pesce, le lettere IHS, o un solo orecchino a destra o a sinistra... : se ne sarebbe accorto qualcuno? Qualcuno si sarebbe sentito offeso? Forse sì. O forse no. Io di sicuro no. Perché ? Mah! Per un semplice motivo di buon senso, di normale rispetto verso la simbologia che ognuno vuol dare al proprio abbigliarsi. A chi verrebbe in mente di protestare perché un politico porta l'orecchino o una piccola luna calante disegnata sulla cravatta? Chi si sognerebbe di depennare le numerose edicole dedicate alla Madonna, incastonate negli edifici del centro storico di Roma, solo perché alcuni passanti si sentono offesi o minacciati?

Sono cattolico, ma un simbolo religioso - di qualsiassi religione - portato con contegno, non mi darebbe nessun fastidio. Sono convinto che anche questi semplici gesti di "ordinaria/normale tolleranza"  determinino la messa in atto di quella laicità cui molti si riempiono la bocca, senza forse sapere con esattezza di cosa in realtà si tratti. Una società autenticamente/civilmente laica è la più solida garanzia di libertà di espressione religiosa. Sempre che quest'ultima non includa aspetti che siano di scherno o di minaccia alla collettività.

Francamente, non vedo minaccia alcuna in una piccola croce; al meno che non la si voglia rivestire artificialmente di significati estranei ad essa. Ma in questo caso si tratterebbe di adulterazione, manipolazione, e l'onestà intellettuale di una società che si ritiene adulta e culturalmente elevata, dovrebbe saper soprassedere e/o contrarrestare tali disonesti tentativi.

Paradossale che pochi avvertano la reale minaccia di numerosi e ben visibili programmi inappropriati, contenuti negli orari di protezione al minore. Paradossale che nessuno si lamenti quando croci e rosari vengono ostentosamente ciondolati su passerelle d'alta moda o sui palchi di certi maxi concerti. Paradossale che tale fatto sia accaduto in una Nazione la cui bandiera reca in se' la croce. Paradossale che ci si senta minacciati da un simbolo che - per antonomasia - esprime “non violenza”. Eh sì: perché la non violenza attiva è scaturita da quella croce! Più precisamente dall'Uomo (unomo e Dio) che quel simbolo rappresenta. È da là sopra che quell'Uomo, condannato ingiustamente, perdonò i propri carnefici (cf. Vangelo di Luca 23,34), coronando un'esistenza all'insegna di un nuovo e per allora non concepibile atteggiamento: amare e fare del bene anche a chi ti procura il male (cf. ib 6,7-31.35-37).

Siamo seri! Una realtà laica, quindi pluralista e aperta al bene come quella norvegese (et altre che si considerano tali), non può sentirsi minacciata dal Simbolo che introdusse nelle nostre Comunità Civili il concetto di “dignità/uguaglianza” fra le persone, di “salvaguardia” dei più deboli: due pilastri immancabili  nelle Legislazioni delle Società chiamate... Moderne.

                                                                            Ignazio Cuncu Piano.

sabato 26 ottobre 2013

UN'ESPLOSIONE IN VIA RASELLA

La morte di Erich Priebke, l'11 ottobre scorso, ha riaperto una ferita storica di non facile rimarginazione: l'eccidio di 335 persone nelle Fosse Ardeatine.

Conosciamo tutti il detonatore di quest'abominevole fatto. Il 23 marzo 1944, in via Rasella (Roma), un gruppo di prtigiani del GAP fece esplodere una bomba contro il Polizei-Regiment Bozen : soldati altoatesini, quindi... italiani. La reazione dei comandi tedeschi fu di una spietatezza inaudita: l'esecuzione di dieci italiani per ogni soldato ucciso. Pare che le autorità militari (tedesche) residenti in Italia, riuscirono a ridurre il massacro (nell'iniziale delirio di Hitler avrebbe dovuto avere più ampie dimensioni); tuttavia l'efferatezza della rappresaglia calpestò spudoratamente i criteri sanciti dalle Convenzioni di Guerra. D'altro canto: come stupirsi? Come non immaginare una reazione drasticamente violenta da parte di un Regime (quello Nazista) che usava la ferocia e lo sterminio come prassi abituale?

Ignoro le ragioni di fondo che spinsero i partigiani comunisti a un'azione (l'attentato) che considero un “sovrappiù di violenza” che non sortì nessun effetto, se non quello di inasprire le posizioni nemiche. Inoltre gli Alleati, cioè coloro che effettivamente liberarono l'Italia dai Nazisti, erano ormai a pochi chilometri dalla Capitale.

Come molti, anch'io mi chiedo perché quei partigiani non si siano consegnati subito - per evitare ritorsioni su altre persone - , allo stesso modo del carabiniere Salvo D'Acquisto (+23 settembre 1943) o del finanziere Vincenzo Giudice (+16 settembre 1944), i quali si addossarono colpe non loro pur di salvare vite innocenti.

I partigiani erano perfettamente al corrente dell'inevitabile rappresaglia che avrebbero scatenato. Tutti i romani ne erano al corrente. Il comando tedesco infatti, aveva affisso per tutta la città numerosi manifesti che a chiare note ammonivano sulle severe ritorsioni che sarebbero scaturite da ogni eventuale attentato.

Ma torniamo alle responsabilità non assunte: perché gli autori dell'attentato di via Rasella non si costituirono ai comandi Nazisti, per salvare le vittime della rappresaglia? Alcui anni dopo, gli stessi ex-partigiani addussero a propria difesa che quell'attentato fu un'azione di guerra. La mancata consegna al nemico rispondeva a quella logica: erano combattenti, forze di contrasto contro il nemico invasore, e il loro compito non era costituirsi, ma seguitare nella... guerra per la liberazione del popolo italiano. Precisarono inoltre che la previsione di rappresaglia (su altri) non avrebbe impedito l'attentato.

Peccato che questi “condecorati al valor militare” si siano dimenticati che il codice etico di guerra (scritto o non scritto non fa differenza) afferma che la popolazione civile debba essere difesa ad oltranza - con l'offerta della vita se necessario - da parte di coloro che presumibilmente si sono rivestiti di tale compito: come, per esempio, certi sedicenti partigiani.

Dedico questa riflessione all'adolescente Pietro Zuccheretti, dilaniato dall'esplosione di via Rasella. Lasciato in ombra dalla storia. 

                                                                                                     Ignazio Cuncu Piano.

lunedì 21 ottobre 2013

LA SPERANZA? È IL RIAPPROPRIO DEL CENTRO.

Qualche anno fa chiesero a papa Benedetto quale fosse il centro della Chiesa. La risposta del Pontefice eluse la sottile insidia che quella domanda - forse - celava: “Il centro della Chiesa si trova laddove risiede ogni cristiana/o”. Questa semplice e geniale affermazione, racchiude la visione essenziale dell'ecclesiologia cattolica: Chiesa è ogni cristiano/a battezzato/a, facente parte il Corpo Mistico di Gesù. Non esiste quindi un ipotetico centro ecclesiale insignito di maggiore importanza. Non è più Chiesa-Corpo (di Cristo) una comunità di fedeli riunita in Piazza san Pietro attorno al Papa, di quanto non lo sia una comunità (di cattolici) riunita in un anonimo villaggio del Medio o Estremo Oriente, dell'Africa, dell'America Latina o dell'Oceania.

Anche al di fuori della Chiesa l'amore di Dio non fa differenze. Per Lui non esiste un'Umanità periferica e una centrale. Periferia, centro, serie A e serie B sono categorie create da noi. Categorie non sane, quindi sconosciute a Dio, per il quale ogni uomo è “centro della Sua attenzione”. Addirittura la Bibbia ci autorizza a sostenere che la Sua misericordia, paradossalmente, mette ancor “più” al centro chi dagli altri uomini è messo “più” da parte!

Quando papa Francesco parla delle periferie, quindi, non si riferisce a quelle secondo Dio (già visto il perché), ma alle periferie segnate dalla metrica umana, tarata spesso su parametri altri da quelli di Dio (cfr. Isaia 55,8).
Il Papa conosce bene questo tipo di demarcazione perversa, perché porta con se' l'esperienza delle metropoli latinoamericane, le cui periferie ( e non solo) sono in gran parte configurate dalla presenza delle bidonville: catapecchie irregolari che rompono la spettacolare architettura dei moderni grattacieli che spesso le fanno da sfondo.

Quelle periferie sono il frutto, in un certo senso, della resistenza del “centro”, che spesso non può o non vuole assimilare ai propri sistemi di benessere quelle marginali categorie umane.
Ed ecco che la periferia, il più delle volte, diventa zona d'ombra, contenitore di “persone superflue” (Z. Bauman) lì parcheggiate, per essere usate, al momento opportuno, ai fini utilitaristici del centro.

Quando si parla di centro, di solito si allude ad un ambito geografico ideale, in cui si possano realizzare le proprie aspirazioni, sentirsi importanti, appagati, assistiti da servizi efficienti, culturalmente all'altezza del mondo che conta. Un luogo dove la speranza parrebbe operativa, dove gli altri dovrebbero accorgersi che tu esisti e vali (!).
Periferia significherebbe l'opposto: il vivere velato da una patina di frustrazione, di perenne incompletezza; lo specifico proprio (cultura, lingua) considerato come incentivo di arretratezza.

Ma è proprio così? Eppoi: è così vero che le periferie non abbiano altre strade da percorrere se non quelle verso un ingresso forzoso nei cantri già esistenti? Un'epidermica lettura della realtà verterebbe verso un remissivo “sì”. Ma la verità di fondo per fortuna è altra: la periferia è un'artificiale eredità degli interessi del centro. Perché la periferia, in se stessa... non esiste.

Un artificio che il centro sostenne e sostiene per assicurarsi dei maggiordomi ai suoi servigi: “Tu sei periferia perché mi servi così!”. Un'artificiosa sottomissione mentale, quindi culturale, linguistica, sociale ed economica, sedimentata a tal punto da non farci accorgere che si tratta, forse, del più perverso - e dannoso! - pregiudizio esistente “tra i Popoli”. Un pregiudizio (quindi realtà fittizia) che impoverisce drammaticamente tutti, centro compreso.

Viste sotto questa luce, le visite del Pontefice al carcere, Lampedusa e Cagliari, non rispondono a un itinerario dagli esordi periferici: tutt'altro! Asseriscono una semplice verità: quei siti sono centro a se stessi, fulcri di vitalità propria, realtà umane non seconde a nessuno.

Un carcere è centro e se stesso, nel bene e nel male: è città, è popolo, ricco di enorme potenzialità umane. E per quanto strano possa sembrare, è centro di speranza, come dimostrano tante esperienze poco diffuse dai media. Una realtà verso la quale - quelli fuori - siamo collocati in una comprensione del tutto periferica (chi conosce il carcere dal di dentro sa capirmi).

Gli abitanti di Lampedusa sono protagonisti di una vicenda umana che gli conferisce, pur tra laceranti difficoltà, una dignità unica, centrale! La paziente generosità verso gli sbarchi, la pietà per i naufragi, la tramutazione del loro suolo in approdo di iniziale speranza per molti miseri, è ormai parte del DNA di questa Popolazione. Non gode di altrettanta ricchezza umana chi, dai presunti “centri” di potere, si rende “periferico” al dramma che si celebra nell'Isola!

Le Genti sarde godono di un bacino culturale autoctono tutto da scoprire, che ha arricchito e a sua volta si è arricchito dalle numerose civiltà di cui l'Isola fu, per millenni, punto di confluenza (centro). Una cultura abbinata a privilegi geografici, al sole e al vento fecondi di esuberante energia, alla disponibilità di un suolo fertile di tutto; quanto humus per coltivare una convivenza felice, di giusto benessere, retta da rigore ecologico, colma di dignitosa originalità!

La realtà magnifica, la “perla” che si cela nelle varie geografie umane, è proprio questa: ogni uomo, ogni comunità, ogni Popolo è centro a se stesso; realtà con personalità e dinamismo proprio. È tale ritorno al centro sanamente inteso (niente a che vedere con egocentrismi, narcisismi o sciovinismi di sorta alcuna) che genera altrettanti sani criteri di relazione con gli altri “centri”, ai quali si dà e dai si quali riceve, senza ibridare la personalità propria. Ciò che rende le periferie marginali e frustrate è infatti il rinnegamento di se' stessi, coll'illusione di poter accelerare il ritmo di emancipazione camuffandosi all'interno di altri modelli culturali. L'unico risultato di tale tentativo? Analfabetismo etnico. È quanto colgono i Vescovi catalani quando affermano che: “Il nostro Popolo [e ogni Popolo] ha verificato che se abbandona la propria identità culturale, perde il nesso con la cultura umana […] L'universalismo non è mai stato interpretato in Catalogna come un processo riduzionista di sudditanza a una cultura egemone, ma come rinvigorimento di ogni cultura e come contributo responsabile a servizio dell'uomo” (Episcopato catalano, Radici cristiane della Catalogna, 1986).

Operare un processo di ritorno “al centro di se stessi” – da parte di ogni persona e Popolo - è l'obiettivo dell'autentica speranza, è diritto e dovere verso se stessi e verso gli altri.

Ma come diventare centro a se stessi? Volendolo; dunque mettendo in atto un graduale cambiamento di mentalità. Perché essere centro o periferia, l'abbiamo visto, è in primo luogo una questione mentale. E le risorse? Devono sorgere dal cuore della stessa periferia, ché, come visto, periferia non è. Gli aiuti esterni son certo utili, ma solo se funzionali al percorso in tema. Ottimizzare l'interazione con i Popoli in tal senso rispettosi e stimolanti, è cosa più che buona.

Una tentazione altamente devastante per le periferie, consiste nello stagnare in una lamentosa- piagnucolante passività, con la speranza che il centro, commosso, vada in suo soccorso. È una pia illusione radicata in quella stessa dipendenza mentale che la storia ha sedimentato nel cervello delle periferie. Solo un processo come sopra espresso potrà tramutare in “centro” la falsa percezione che i Popoli “periferici” hanno di se stessi. Il resto viene da se'.

È possibile tutto ciò in un mondo ove i pochi sedicenti Centri soggiogano le molte Periferie? Sì. Alcuni Popoli l'hanno già fatto, altri sono a buon punto; altri ancora si stanno immettendo in carreggiata. I venti contrari saranno forti. Le resistenze degli attuali centri non daranno tregua; ma al contempo fungeranno da utile cartina tornasole, secondo l'aforisma del Mahatma: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”.

                                                                                            Ignazio Cuncu Piano.

sabato 28 settembre 2013

SARÀ GENOCIDIO?! (le basi militari in Sardegna)


Accusare una persona, un popolo o un governo di genocidio è una cosa grossa. Prima di lanciare quest'enorme macigno c'è da pensarci bene; soprattutto bisogna avere “ prove fondate”. Quali, per esempio? Quelle che la storia ci ha offerto più volte con macabra coerenza, insegnandoci ad inquadrare quest'abominevole azione nell'ambito di principi propri, scostanti dalle pur ripudiabili guerre (convenzionalmente intese) o da altre forme di attentato alla vita umana.

Dopo l'agghiacciante esperienza della Shoah (simbolo di tutti i genocidi), le Nazioni Unite si sono sentite in dovere di classificare gli aspetti specifici del genocidio: per poterlo individuare senza ambiguità, prevenirlo, o per lo meno sanzionarlo. Nel 1948, si approvò la seguente definizione:

Per Genocidio s'intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione dei membri del gruppo; lesioni gravi all'integrità fisica dei membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

Pur trattandosi - secondo molti - di una definizione incompleta (ci sarebbe da aggiungere, ad esempio: la discriminante culturale, politica, economica), il concetto base è chiaro.

Il genocidio reca in se' un'efferatezza elaborata in modo quasi-scientifico; una specie di sterminio da laboratorio, ora palese ora occulto, a seconda delle convenienze di chi lo metta in atto.

Nel presente storico abbiamo acquisito una discreta intelligibilità circa il genocidio manifesto. Non così per quello indiretto, occulto, propinato in piccole-camuffate dosi (più difficile da decifrare).

Alcuni - con ragione - definiscono le morti per gli abusivi rifiuti (tossici) nella Campania, come "genocidio indiretto", visti gli effetti che quest'azione criminale sta innescando in quelle Popolazioni. Come non essere d'accordo? Chi commette azioni di tale portata, consapevole ma incurante degli effetti, provoca genocidio. Perpetrato da chi, in questo caso?  Dalle Mafie e da uno Stato connivente, che fa il finto tonto di fronte a tale delitto a cielo aperto!

Mi chiedo: se per assurdo il 70% dei Campani, nel giro di 20 anni lasciasse la propria regione per sfuggire a quest'immane tragedia, staremmo parlando ugualmente di genocidio? Forse sì. E ancora: a chi farebbe comodo tale ipotizzato esodo? Nell'immediato: ad alcuni. A lungo termine: a nessuno. Un genocidio è sempre una traumatica amputazione per l'Umanità, una perdita senza ritorno.

L'episodio campano mi richiama un quesito analogo: le operazioni che da più di 50 anni si svolgono, sotto Segreto di Stato, nei famigerati Poligoni Militari della Sardegna, sono in linea con la pratica del genocidio indiretto con complicità  di Stato? Anche in questo caso i fatti direbbero di sì.

Abbiamo uno Stato truffaldino, lo sappiamo (vedi caso Ilva, p. esempio) e ne siamo più o meno - sig! - assuefatti; mi riesce però difficile immaginare uno Stato che premediti l'eliminazione (per morte e per esodo) delle popolazioni limitrofe a quei Poligoni. Eppure il genocidio è in atto. Tutto ciò fa sospettare che in certi casi  - come il nostro? -  la linea di demarcazione tra certi addestramenti di guerra e i... crimini di guerra, non sia poi così netta.

Alcuni affermano che bisogna andar cauti prima di sbilanciarsi in simili sospetti. E a che pro? A che pro tanta cautela, quando nei villaggi adiacenti al Poligono Interforze di Quirra i giovani muoiono, gli aborti spontanei sono frequenti, bambini e animali nascono malformati, la gente ha paura, talvolta è minacciata (da chi?), alcuni pensano di andare a vivere altrove, un Magistrato ha svelato le cause di tanto disastro? A che pro tanta cautela quando sappiamo che in quelle aree non si testano macchine agricole, ma prodotti mortali per antonomasia? A che pro tanta cautela quando sappiamo che su quel suolo stuprato si paga il prezzo di un ciclopico giro di affari - quello delle armi - protagonizzato (con la ben remunerata - e al contempo inerme - complicità dei Governi) da potenti Multinazionali?

E dal Governo Italiano... quale risposta? Lamentevole. Bugiarda, fredda, quasi-cinica: “cumment'e chi mmai!” (come se niente fosse!), si dice in lingua sarda. La superbia di chi si sente padrone e signore di un servaggio da disporre a proprio piacimento, senza dover rendere conto a nessuno.

In questa torbida vicenda rimane ancora qualche barriera da superare: la persistente omertà di una parte della popolazione, ancora illusa circa i benefici tratti da quelle Basi. Ma la presa di coscienza cresce; forse non con la dovuta rapidità, ma cresce. Sono sempre più numerosi coloro che con dignitosa indignazione affermano che “tre posti di lavoro scarsamente remunerati e la vendita di qualche chilo di arance” non possono valere la malattia e morte di tante persone, il dolore delle famiglie; in definitiva: la distruzione di un intero territorio, di un completo ecosistema e della propria... Carne (la gente che vi abita).

I gravissimi fatti cui sopra, in un tessuto sociale e politico retto dal Diritto a tutto tondo, confluirebbero nella crisi di Stato, nell'implosione di Governo, nelle dimissioni di massa di chi è direttamente coinvolto, nell'incriminazione di molti, nello scandalo internazionale. Niente di tutto ciò è accaduto.

                                                                                                 Ignazio Cuncu Piano.

lunedì 16 settembre 2013

UN PELLEGRINO AL SANTUARIO DELLA MADONNA DI BONARIA


Il 22 settembre prossimo, il Papa andrà a Cagliari, in pellegrinaggio al santuario “de Nosta Sennòra de Bonaria, Reìna e Abogada soberana de tottu sa Sardinnia” (di Nostra Signora di Bonaria, Regina e Protettrice suprema di tutta la Sardegna). Lo stesso Papa ha spiegato il motivo di questo pellegrinaggio mariano.
Nell'Isola fremono i preparativi, ricchi di mille dettagli. In effetti, come non disporre un'accoglienza ben preparata, di fronte a così felice circostanza?

La comprensibile festosità non dimentichi però il motivo midollare del gesto del Pontefice: il pellegrinaggio. Il Papa viene... pellegrino.

Il pellegrinaggio religioso è una pratica millenaria, non esclusiva del cristianesimo; addirittura anteriore ad esso. Penso - giusto per stare in casa - ai Popoli della Civiltà Nuragica e ai loro pellegrinaggi verso i santuari campestri. Su quegli stessi tracciati, la religione cristiana erigerà, millenni appresso, molti dei propri santuari e annessi (is Cumbessìas o Muristènes): meta di quei pellegrinaggi e feste tutt'ora esistenti in tutto il nostro territorio.

Nella visione biblica, poi sviluppata dai Padri e dalla Tradizione (della Chiesa) fino a noi, la vita stessa è considerata un pellegrinare verso la pienezza del Regno (la pienezza della vita in Cristo).

Il significato cristiano di “pellegrinaggio” è indissociabile da un altro (significato): essenzialità”. Il pellegrino è per sua natura parco, porta con se' l'essenziale: sia perché ogni sovrappiù appesantirebbe il suo procedere (chi è appassionato di montagna può ben capire), sia perché i beni di questo mondo (ricchezze, prestigio, ...) son per lui poca cosa rispetto alla meta perseguita. Pellegrino è colui che non accampa diritti in questo mondo: sceglie di camminare, tra la precarietà solitaria della campagna, straniero alla città (simbolo di comfort a portata di mano e di futili protagonismi), verso una meta da lui considerata vitale.

Insomma: pellegrinare è un camminare leggeri da ogni peso inutile “con-in-verso Cristo”: unico Principio, Fondamento e Meta di ogni donna e di ogni uomo.

Tale visione esistenziale cristiana nel corso dei secoli ha plasmato gesti simbolici, quindi concreti, quali i pellegrinaggi a luoghi rappresentativi come: Terra Santa, Roma, santuari dedicati direttamente al Signore (Divina Misericordia, Sacro Cuore, ...), alla Madonna (Guadalupe, Fatima, ...) o ai Santi (Santiago de Compostela, Cascia, ...) . Queste ultime due categorie (di santuari), rispondono ai culti di iper-dulia (devozione speciale per Maria) e di dulia (devozione per i Santi), che sono, nella fede cattolica, sempre ordinati al culto di latria: adorazione rivolta solo a Dio (la devozione alla Madonna e ai Santi, assume efficacia in noi, non solo quando ci limitiamo a chiedere una pur legittima intercessione per qualche grazia, ma quando - e soprattutto - facciamo nostra la loro vita piena, realizzata nell'amore misericordioso, in Dio, all'uomo).

Anche il Papa è cresciuto in una tradizione di pellegrinaggi. Nell'estesa Provincia di Buenos Aires (da non confondere con la città di Buenos Aires) si erge il maestoso santuario della Madonna di Lujàn. A questo tempio, ogni primo sabato di ottobre, accorrono più di un milione di pellegrini, i quali, partendo soprattutto dalla Capitale Federale (così gli Argentini chiamano la città di Buenos Aires), percorrono a piedi poco meno di 70 km durante tutta la notte, formando un interminabile fiume umano che in ragion di devozione e di... spazio, mescola fisicamente tutte le classi sociali (evento di non poco rilievo in America Latina), unanimemente protese - almeno per quella notte - verso la stessa meta.

Sarà con lo spirito del pellegrino, quindi, che il Papa andrà al Santuario di Bonaria. Sarà con lo spirito del pellegrino che bisognerà accoglierlo: nella preghiera e in semplicità. Spendere e spandere in artifici tradirebbe lo spirito di questa visita e oltraggerebbe chi nell'Isola (e nel mondo) soffre la privazione dell'essenziale.

La sobrietà, del resto, non annulla i colori della festa - che ci dev'essere - ; anzi, ne risalta i sani aspetti emotivi, vitali. La festa infatti è la vita stessa del pellegrino, il suo camminare. Il camminare del pellegrino si fonda sulla speranza; quella speranza che nella fede coincide con la certezza. La certezza di possedere già ora ciò che, alla meta del pellegrinare, si gusterà in pienezza: Gesù, lo splendore della sua gioia per e in ognuno di noi, per sempre.

                                                                                                  Ignazio Cuncu Piano.

domenica 11 agosto 2013

IL GREGGE, NELL'ISOLA, È TRA LE FIAMME. E I PASTORI ( I VESCOVI ) ? ASPETTANO IL PAPA ! (!)

La Conferenza Episcopale Sarda (d'ora in poi CES) si è da poco riunita per coordinare l'imminente venuta del Papa a Cagliari (prevista il 22 settembre prossimo). Intervistato, uno dei Prelati ha anticipato i momenti peculiari della visita (l'incontro con i giovani e coi lavoratori), risaltando l'indubbia boccata d'ossigeno che il Pontefice offrirà alla provata speranza del nostro Popolo.

Parole sante, fratello Episcopo!”, mi vien da dire in tutta franchezza.

Infatti, più in là del titolo volutamente ironico (in effetti il Papa non centra con questa riflessione), son felice anch'io della visita del Pontefice e non dubito che sarà un'occasione di festa e di speranza.

La fraterna venatura ironica (del titolo) è invece rivolta ai nostri cari (il “cari” è senza ironia) Vescovi della CES, i quali, a mio avviso, dovrebbero pronunciarsi pubblicamente e con dichiarata fermezza di fronte a precise situazioni che crocifiggono il territorio dell'Isola e delle sue Genti.

Un chiarimento mi sia concesso. Non sono favorevole a una Chiesa in perenne piede di guerra, che abbia sempre e solo da ridire su tutto e tutti, intromettendosi in ogni piccolezza che non le riguardi. Ancor meno faccio tifo per una Chiesa con “pretenziose ingerenze morali e sociali" in combutta col Potere a fin di veicolare a tutti i costi alcuni dei suoi pur nobili valori (ma allo stesso tempo impedita nel denunciare altre beghe di quel medesimo Potere ad Essa vincolato)  .

Gesù stesso ci ha indicato il modello con cui identificare la sua famiglia ecclesiale: una comunità povera, vicina ad amici e nemici; naturalmente predisposta alle persone emarginate; libera da ogni potere; umile, debole nei mezzi; apertamente cosciente della propria fallibilità comportamentale; coerente nei principi evangelici e comprensiva con chi non li condivida; tenera e misericordiosa come lo è Dio con ognuno di noi; efficace nella carità vissuta con normalità, fatta di gesti quotidiani abbelliti dalla discrezione. Così visse Gesù con i suoi discepoli e discepole. Così vissero le prime Comunità cristiane (cfr. Atti 2,42.44-48; 4,32-35); così vissero milioni di cristiane e cristiani in questi duemila anni.

Quanto appena espresso non stride con una Chiesa che al contempo sappia denunciare, al momento opportuno, con la chiarezza e la forza della “parola disarmata” (e dell'esempio), situazioni puntuali che offendano sfacciatamene la vita umana. Non importa che sia voce inascoltata, isolata o perseguitata; importa che la sua voce sia balsamo per coloro che, impotenti, soffrono le prepotenze decretate dal potere costituito o da chiunque altro.

Anche Gesù fece così. La sua quotidianità fu talvolta scandita dai conflitti coll'ipocrita tracotanza dei Potenti, dall'indignata cacciata dei mercanti dal tempio (cfr. Gv 2,14-16).

La nostra Isola è invasa da molti... troppi mercanti che da molto... troppo tempo, traggono torbidi profitti dal Tempio di Dio (cfr. 1 Cor 6,19). Occorre che i Pastori lo gridino con tutti i crismi della sana e santa indignazione. Come non farlo quando un intero Popolo languisce tra dolorose e dolose fiamme? Come non mettere il grido al cielo quando un Magistrato ci svela uno Stato che per anni ha ridotto i nostri spazi a mortali laboratori a cielo aperto e ad abusive discariche per micidiali residui bellici, attraverso i famigerati poligoni di tiro? Come non proferir parola quando - col permesso comprato dallo Stato Italiano -  Nazioni e Industrie (ab)usano l'Isola quale teatro d'armi spesso consumate fra i Popoli più miseri della terra (i conflitti del civile Occidente si combattono solo in Paesi segnati da povertà - da noi stessi bellicamente forniti -, tanto da creare un macabro sillogismo tra affari e violenza)? Come poter star zitti di fronte all'acquisto dei rapaci F-35 (fior di milioni sborsati da un Governo che, vista la crisi, si sente legittimato a chiedere aspri sacrifici ai propri sudditi) mentre la Sardegna è assetata dei molto più economici e utili Canadair? Come star zitti davanti alla grottesca Buffonata Tricolore (finanziata dalla Regione con un contributo di 75mila euro) esibita sulle ceneri di una Terra in lutto per le fiamme, che si è vista dimezzare i fondi per la lotta-incendi? Come non pronunciarsi davanti a una Giunta Regionale vergognosamente complice di spregiudicate (e non simbiotiche) iniziative industriali ed edilizie, atte a ridurre sempre più a pattume il nostro già martoriato (inquinato) suolo, dietro la ritrita chimera dei posti di lavoro?

Credo che solo denunciando tali misfatti i Pastori possano onorare appieno il loro appellativo: Vescovo. Un termine (dal greco episcopos) che indica: il custode, il supervisore, il protettore, il pastore “che guarda a una a una le sue pecore, le rispetta e chiede rispetto per loro (Giuseppe Goisis, " Vescovi, non funzionari”, Fonte Avellana, 19-21 Aprile 2013).

Non ho dubbi circa la sensibilità dei nostri Vescovi della CES e sul fatto che portino avanti innumerevoli azioni belle, buone, efficaci, “beneficando e risanando [molti]” (Atti 10,38), con quello stile semplice di chi sa fare il bene nel nome di Gesù, senza suon di fanfare.

Ma a volte non basta. È lo stesso Maestro a ricordarcelo, come già sopra. Ci sono momenti in cui il Pastore deve "frapporsi fisicamente" e con la faccia dura (cfr. Ez 3,8; Lc 9,51) tra i lupi e il gregge, costi quel che costi (cfr. Gv 10,11-16). Questo è ciò che fece il fratello vescovo Oscar Arnulfo Romero, ucciso in odio alla fede per aver difeso il Gregge da Poteri di morte; questo è ciò che fa il fratello vescovo Pedro Casaldàliga, la cui vita è minacciata per difendere gli schiavi del Brasile; questo è ciò che fecero e fanno alcuni Vescovi italiani contro la letalità delle mafie; questo è ciò che fanno altri Pastori, nel mondo, di fronte a situazioni di grave portata.

Perché, se i Pastori taceranno, saranno le stesse pietre a... gridare (cfr. Lc 19,40).

Penso alle pietre così antiche e solenni della nostra Terra. Chissà, esse sapranno far scaturire dal limite della loro granitica sopportazione, aneliti di liberazione (non violenta) dagli atteggiamenti anti-etici di coloro che, supportati da una legalità manipolata, infliggono con inaudita spregiudicatezza, ogni tipo di azione abusata sulla carne dei deboli, solo perché nessuno...  glielo impedisce.

Ignazio Cuncu Piano.

lunedì 15 luglio 2013

TURISTI: NON VENITE NELL'INQUINATA SARDEGNA!

Un titolo meno esagerato, in piena stagione, no... eh ?!”. Beh, esagerato sì, ma non troppo. O meglio: un titolo dai toni (volutamente) provocativi, ma non falso.

Convengo che nessuno si sognerebbe di affiggere simile frase (magari illustrata con qualche poco edificante fotografia) nelle accoglienze aeree di Elmas, Olbia, o negli approdi di Cagliari, Olbia, Porto Torres! Equivarrebbe, come dire, a darsi una zappata sui piedi? Mah! Son ben altre le zappate che ci diamo addosso noi Sardi. Spesso inavvertite, subdolamente celate persino dietro gli zuccherati slogan vacanzieri, che riempiono d'inutile e confusa fierezza la nostra testa, e di tanti utili le tasche di altri .

Mi viene in mente a tal proposito una storiella che suona più o meno così:

- “ Turisti, se ci tenete alla salute... non andate nell'inquinata Sardegna!” - “Turisti: soprattutto se avete bambini... vi sconsigliamo di venire nella geneticamente alterata Sardegna!” - . Il terribile proclama ad opera di mano ignota venne ostentato in sale d'aspetto di porti, aeroporti, stazioni... su dépliant turistici di tutto il mondo. All'iniziale gelamento di sangue, nell'animo dei Sardi che leggevano l'obbrobrio (soprattutto i “disterraus” (emigrati), quelli che, lontani dalla Patria, ne abbiamo perennizzato la visione bucolica) subentrò una sacrosanta indignazione: - “Ma ita tiau funt iscriendi; cumenti si permitint; funt ammacchiendisì ?!!?” - (ma che diavolo scrivono; si permettono; stanno impazzendo ?!!?). Chi aveva osato scalfire l'intoccabile mito (e proprio di mito si tratta!) di una Sandalion dalle illibate geografie guarnite di tropicalizzanti spiagge, di vergini e selvagge foreste, di sorgenti, di sapori che traboccano naturali gustosità ?
In massa si recarono all'infallibile Tribunale dell'Umanità a chieder che si rivelasse la mano colpevole, l'autore di cotanto gratuito vilipendio, onde fosse comminata pubblica ammenda. Ma: colpo di scena! Tutti piombarono in un silenzio cosciente quando il fantomatico Scrittore (anzi Scrittrice) si diede a conoscere. Nessuno avrebbe potuto immaginare che fosse stata proprio lei: la nobile e sempre equanime Giudicessa suprema di quella medesima infallibile Corte : la Verità”. Nessuno, al suo apparire, osò proferir verbo. Tutti sapevano: davanti alla di lei autorità, l'unico gesto saggio era il fertile ascolto. Con dolce fermezza, donna Verità prese parola: - “Fu per amore all'Isola e a voi suo Popolo che la mia mano compose tal frase, da cui impariate a superar l'inutile costumanza, che vi fa turbare davanti ad ogni futile denigrazione verbale, mentre niente dite e meno fate di fronte a chi, con cortese disonestà, voi strugge e la vostra terra distrugge, grattugia, depreda, maltratta... goccia dopo goccia, giorno dopo giorno” .

Possiamo far finta che si tratti di una leggenda o liquidare il tutto come un brutto sogno. Invece no: è tutto vero. Non solo, il raccontino reca in se' ampia coscienza etica: non possiamo vendere pesce marcio come fosse fresco; non sarebbe onesto. Ichnusa è inquinata tanto, troppo. Urge prenderne atto.

Insomma: non è quel paradiso incontaminato da noi declamato, ove far adagiare, in piena garanzia, corpi di turisti anelanti selvagge et illibate geografie. Tanta terra, tanta sabbia, tanto mare, tante fonti e tanta aria “de sa giaiosa Insula nosta” (della nostra cara Isola) trasudano alte concentrazioni di porcherie di ogni genere; a volte veri e propri laboratori di... alterazioni genetiche.

Non so se la più inquinata d'Italia come alcuni sostengono, ma di certo sempre più ridotta a pattume. Scorie minerarie dense di principi tossici; industrie chimiche che impregnano aria e mari (le ciclopiche ed economicamente “inutili anzi gravose” servitù industriali); approdo di navi cariche di rifiuti ; ampie superfici terrestri e marine stuprate da esercitazioni belliche (le diaboliche servitù militari); scie chimiche ed il loro sospettoso strascico; lo stesso mal gestito apparato turistico, che ha tappezzato di cemento (legalmente abusivo) enormi perimetri costieri (e l'andazzo non accenna a scemare!), giusto per dirne alcune.

C'è un enorme tasso di beffa in tutto ciò, visto che la quasi totalità di queste velenose scelte sono state (e sono) imposte dall'alto e dal di fuori (con la nostra arrendevole complicità). Chissà: anche la beffa sarà da annoverare fra gli agenti contaminanti il nostro territorio interiore? Temo di sì.

Ma che problema volete che gli faccia al turista la presenza di un'industria petrolchimica !?”, esordiva un assessore regionale, qualche anno fa, in un dibattito televisivo. Così superficialmente e svogliatamente impostata la questione, saremmo quasi tentati di dargli ragione. Volendo andare a fondo, invece, ci si può accorgere che Sandalion non dev'essere sana e bella per il turista, ma per la dignità e il “gusto di vivere e di viverci” di chi vi abita: i bambini sardi, i giovani... le donne... gli uomini... gli anziani... i malati. Perché la terra, per quanto turisticamente vendibile possa essere, è prima di tutto parte vitale di chi vi nasce e di chi l'adotta come tale. Elemento simbiotico con chi in essa trova il sostentamento quotidiano, attraverso una complicità vitale protesa a rendere sempre più bella e buona sia la terra, sia chi la la popola ( “sora [sorella] nostra matre terra [che] produce diversi fructi con coloriti fiori et herba”. - Francesco d'Assisi, “Cantico delle Creature”, 1224ca.).

Quando esiste tale relazione di empatico affetto, fatto di attenzione, gratitudine ed equilibrio, verso la propria terra, allora anche il turismo diventa un'iniziativa godibile e proporzionata; altrimenti anch'esso si riduce a un aggiuntivo agente inquinante e dispendioso.

Per controbilanciare l'odioso titolo di questa riflessione, si potrebbe obiettare come nell'Isola persistano - sia in terra che in mare - rigogliosi polmoni di alto pregio floristico e faunistico. È vero, grazie a Dio. Ma attenti! L'inquinamento è un mostro che non obbedisce confini, dotato di un'incontrollabile essenza anarchica che ne determina le pericolose migrazioni! Le grosse sacche di veleni sono una macchia d'olio che deborda in ogni dove l'iniziale circoscrizione. Un pericolo in continuo movimento quindi, reso ancor più grave dal contesto dell'Isola, caratterizzata da equilibri ecologici tanto splendidi quanto strettamente interconnessi e fragilissimi, da soppesare/ utilizzare/ misurare col “bilancino dell'orefice”, e non certo da calpestare coi piedi d'elefante.

Le sostanze chimiche scaricate massivamente nel nostro mare, non sanno delle sue variopinte trasparenze, e non ci chiederanno nessun permesso il giorno in cui, giunte a saturazione, dovessero intorbidirne i colori e sterminarne la variegata e in molti espetti endemica flora e fauna!

La Sardegna è abbastanza grande e generosa da permetterci di vivere dignitosamente, ma abbastanza piccola da non poter metabolizzare i troppi agenti inquinanti che in essa coesistono in crescendo.

Quale la soluzione? Non amo parlare di soluzioni: sanno di pozione magica; micidiale veleno propinatoci dalla politica isolana e oltremare, quella stessa che ha confezionato, in questi ultimi cinquant'anni circa, i malefici “incantesimi” che ci stanno avvilendo.

Non si tratta quindi di soluzioni ma di percorsi da progettare. Percorsi che rechino in se' lo stile di vita che desideriamo per noi; uno stile di vita compatibile con la terra che la vita ci ha assegnato in dono. Chi deve progettare? Noi e non altri. Noi dobbiamo progettare, noi dobbiamo portare avanti, noi dobbiamo essere i custodi del progetto, noi dobbiamo apportare verifiche e modifiche, noi dobbiamo assumerne le responsabilità, fino in fondo. Un cammino impercorribile se non ci disinstalliamo dalla nostra piagnucolante comodità.

C'è però una pericolosa ambivalenza che va scorporata dal progetto: non possiamo vivere col diavolo e l'acqua santa, pretendendo capra e cavoli. Tutto ciò tradotto in lingua sarda significa: non si può abbinare l'industria pesante e altri agenti di inquinamento massiccio, alla geografia di un'Isola con determinate caratteristiche e dimensioni. Mille altre risorse ci offre la nostra generosissima terra, ma quella no! Sono gli scottanti avvenimenti che stiamo protagonizzando nel presente a gridarcelo in faccia. Urge cambiare mentalità e filosofia di vita. Un giro di boa che non sarà tale fin quando permetteremo che per un misero stipendio si costruiscano mastodontiche latrine nel loggiato di Casa nostra. A che vale il posto garantito alla SARAS (industria che ha usurpato, tra altre cose, un'enorme superficie di costa vocata al turismo) per un abitatore di Sarroccu (Sarroch), se ancor in giovane età dovrà lasciare orfani i propri figli? E gli enormi spazi sottratti dal Governo Italiano per i giochi di guerra? Quante possibili iniziative frustrate! Il giorno (spero presto) in cui spariranno questi mortali spettri , ci si renderà conto che, senza il vorace gatto, tanti topi potranno ballare, respirare, creare, assaporare formaggi... vivere meglio. Perché i topi non sanno che farsene del gatto per procurarsi il formaggio! Questo lineare concetto, molto semplice per i topi, non lo è ancora del tutto per noi Sardi.

Eppoi: si può sostenete un'adeguata e responsabile attività turistica in mezzo a tanto “chimico ambaradan?”. Non è cosa ne' di buon senso ne' professionalmente seria, se ci si pensa bene, visto che l'armonica coreografia ecologica è indispensabile per incoraggiare questo tipo di industria. Fermo restando quanto sopra: la ricostituzione di una vocazione turistica più sentita e curata, potrà essere solo consequenziale alla scelta di qualità di vita che ogni donna e uomo sardo farà, prima di tutto, per se' e per i propri figli.

C'è un altro fondamentale aspetto da chiarire in merito. Donna Verità (quella del raccontino in proemio) ci ricorderebbe che i proventi turistici rimanenti nelle casse dell'Isola sono... irrisori. La gestione di quest'attività (quindi i capitali) nel suo insieme non è - lo sappiamo - nelle nostre mani. E se continueremo a delegare, svendendo parchi e coste ad Emiri o a chicchessia per mendicare poscia un po' di pane secco in casa nostra (macabro sillogismo!) , le cose non andranno mai bene: tutt'altro.

Sarà cosa buona riappropriarci della Casa, con serenità e fiducia verso noi stessi, coll'entusiasmo che sostiene chi è protagonista di se stesso. Sarà possibile? Sì. Sarà difficile? Anche. Ma forse meno di quanto si pensi. Per percorrere questo nuovo cammino, c'è un assioma da non eludere mai (perchè equivarrebbe ad una falsa... astuzia): non credere ne' cedere alle ritrite/ altisonanti/ risolutive (!) chimere piombate dal cielo (specie se da... altri cieli) e camminare su progetto più semplici ma dignitosi, più intrisi di saggezza, più a misura d'uomo, e soprattutto nostri: a testa alta!

Questo dovuto protagonismo, seppure ancora embrionalmente, è già innescato nell'animo di sempre più persone. Segno di una felice primavera; forse ancor timida, ma progressiva nel suo evolversi.

Una primavera che non si acconta di rimaner tale, ma che ha la sacrosanta pretesa/diritto di andare fino in fondo: approdare alla stagione estiva dell'Autodeterminazione Politica, dell'indipendenza. Unico (non ce n'è altro) modo per costruire il nostro cammino senza le frenanti manipolazioni - e a tutt'altri scopi protese - interferenze della Nazione a cui ora siamo subordinati.

In tale nuovo contesto di protagonica, sovrana (a tutto tondo) e armonica operatività, anche gli slogan turistici (pochi, in verità, perché il “fatto bene” parla di se') avranno un altro gusto: più pieno, più nostro, più... vero:

Cari turisti, vi aspettiamo in Casa nostra! Avremo piacere di trattarvi come foste... noi stessi. Sdraiatevi pure sulle nostre spiagge, riposate sui prati. Rinfrescatevi alle nostre acque. Portate i vostri bambini: abbiamo preparato per loro le stesse cose belle e sane che diamo... ai nostri figli”.

                                                                                                  Ignazio Cuncu Piano.