domenica 25 novembre 2012

TURISMO IN SARDEGNA: RICREARE LA RICREAZIONE

TURISMO IN SARDEGNA: RICREARE LA RICREAZIONE.

Ogni tanto su giornali, riviste, aeroporti... mi capita di osservare variopinti frammenti costieri dall'inequivocabile firma. Un invito ad approdare ai nostri lidi. Niente di male un po' di pubblicità. Ma insistere sempre sul mare mi sembra una forzatura, un sovrappiù. Alla stessa stregua di una Venezia che dovesse continuamente ricordarci le romantiche calli d'acqua, ovvero: la sua più ovvia peculiarità turistica.

Che l'Isola sia fornita di coste, spiagge, mare splendido... è noto a tutti. Dovrebbe essere un dato così scontato nella nostra mentalità turistica, da far centrare l'attenzione su aspetti più importanti: quelli che fanno al nostro merito, per capirci. Perché, siamo onesti: quegli splendori naturali sono annoverabili tra i meriti del buon Dio! Mentre nostro vanto sarà, verbigrazia, l'impegno nella salvaguardia di cotanta bellezza.

Nell'Isola, dal suo espandersi in poi, abbiamo assistito di frequente ad un turismo abusato, altamente inquinante: dalla struggente edilizia alla sporcizia tra la vegetazione. Per non parlare poi di certe stravaganti-ripetute menomazioni, effettuate da chi ha la cafona abitudine di strappare souvenir direttamente da Madre Natura. Tutti abusi dovuti - oltre all'inciviltà di chi li commette - alla nostra “lassezza ecologica”. Se fossimo dovutamente esigenti nel rispettare e far rispettare, applicando all'occorrenza proporzionati “iscramentus” (multe a mo' di monito) legali, allora la musica sarebbe altra! Nei luoghi dove il controllo esiste, si può osservare come - oltre alle persone addette - sia la popolazione tutta a vigilare. Si crea così una sorta di “eco-atmosfera” tale, che le persone che che lì villeggiano si sentono gentilmente... controllate (forse il termine non è il più adatto), esortate al rispetto di una porzione del pianeta che - UNESCO o non UNESCO - è patrimonio dell'intera umanità.

E se anche noi facessimo così? I turisti verrebbero più volentieri e più... civilmente selezionati! Perché laddove c'è serietà ecologica, cordialità e prezzi ragionevoli, il buon turismo è vincente. Sì: esiste un turismo serio, amante della natura, della semplicità, dalle esigenze non sofisticate, attento alle specifiche culture dei popoli - quello dobbiamo favorire! - il quale apprezza la trilogia: cordialità, natura ben curata, prezzi.

La salvaguardia ecologica quindi, ai primi posti. Da essa dipende tutto il resto. Che senso avrebbe lucrare avidamente su un mal gestito turismo lasciando deperire, alla fin fine, la stessa fonte di lavoro? Eppure spesso così accade. E il turista se ne va con l'impressione apposta: passiva cura dell'ambiente (molti, al loro ritorno dalla Sardegna, portano l'impressione di : paradisiaci ambienti spesso abbandonati a se stessi, alla mercé del primo malintenzionato...), prezzi esosi, servizio evanescente e a muso lungo. Naturalmente non sempre è così. Laddove curiamo il tutto e siamo cordiali (e quando vogliamo, sappiamo esserlo in maniera singolare), i visitanti se ne accorgono, apprezzano molto... e ritornano ben disposti. Perché si sentono bene, caldamente accolti, messi al loro agio, rispettati e invitati a rispettare.

La vocazione turistica , in fin dei conti, è una missione tutta speciale dove i rapporti umani, più in là delle apparenze, ne costituiscono la piattaforma. In fondo si tratta di un incontro tra due gruppi di persone: quelle che vivono il tempo della ricreazione, e coloro che ospitano facendo sì che quest'ultima sia piacevole. Ne scaturisce un arricchimento reciproco, che rende la vocazione turistica un'esperienza assai più profonda di un mero lucrativo mestiere.

La predisposizione al turismo non può prescindere dalla rigorosa pulizia in senso ampio. Mi riferisco alla nettezza urbana ben organizzata, ai cassonetti, alle cose fatte bene, messe in ordine. Tralasciare o meno questi aspetti fa la differenza eccome! No: non basta il bel mare! Tutto l'insieme dev'essere bello. Bello e... pulito. Perché un autentico senso del turismo include l'idea del bello “armonico con l'ambiente” : “ Chi a palas de is ermosas plaias, de s'oru 'e mari, ddoi fuiaus donnia calidadi 'e aliga e fareus agatai donnia bruttesa manna, e ddoi funt ainas ghettadas a pari, a sa managa, is turistas sin-ddi acatant e no at a essi ua recrama bona pro nosus...”.

Ed ecco il turno dei segnali stradali. Insufficienti, come ben sappiamo. E come fa il malcapitato turista...? Chi traccia la segnaletica dovrebbe mettersi costantemente nei panni del visitatore che per la prima volta si cimenta nella rete stradale isolana. Spesso - causa cartelli mancanti o poco orientanti - si è costretti giocare alla roulet russa per azzeccare la meta prescelta! D'accordo: ci sono le mappe e tecnologie varie. Ma non ci esimono dal nostro civico dovere. Perché quando sei lì, davanti al fatidico e ingarbugliato incrocio, nella deserta campagna, specie se immerso nella tenebrosa notte sarda: una buona segnaletica è un sollievo da non poco!

Insomma: siamo noi che, in certi aspetti dobbiamo adattarci alle esigenze dei visitanti. Penso, per esempio, alla configurazione degli orari (perlomeno quelli estivi) di musei, chiese,... Ho notato (e mi è stato fatto notare) che soprattutto i turisti di provenienza anglosassone o nordica in generale, nelle visite alle nostre città, non rispettano le pause canicolari. Chiudere bottega in questo lasso di tempo non equivale certo a mettere al loro agio queste persone.

Eppoi le chiese. I turisti amano visitare le nostre chiese! Ma - ahimè! - molti sono costretti a sostare sconsolati all'uscio per via dei... cartelli. Non mi pare risponda al buon senso proibire un abbigliamento più che consono nelle torride estati sarde. Pantaloni fino al ginocchio e magliette prive di maniche (non aderenti e senza scollature o riduzioni varie) - tipica uniforme del turista che cammina, sia nell'uomo che nella donna - mi sembrano abiti più che dignitosi. In altri Paesi caldi come la nostra Isola, non si fanno di questi problemi.

Ed ora... circa la grande-grave questione: la massiva edilizia nelle coste è sinonimo di maggior profitto economico? No. In teoria l'assioma pare assimilato; ma nella prassi...! Tutt'ora si assiste all'innalzamento di cubiche strutture in luoghi ancora vergini, quasi dia fastidio che rimangano degli ambiti non imbrattati da mattoni e cemento. Insomma: ingordi fino all'osso! È chiaro che l'edilizia debba essere contemplata dall'industria turistica, ma plasmando il tutto in sintonia con l'ambiente; le coste sarde non sono la riviera Adriatica, Punta del Este o le spiagge carioca.

Nemmeno il “turismo di lusso” è di ecologica ed economica convenienza. In gran parte parliamo di gestioni dalla titolarità oltremare, le quali, in proporzione agli ingenti sacrifici ambientali da esse richiesti, lasciano esigui benefici in loco (in termini complessivi). Nemmeno l'agricoltura, la manifattura e l'allevamento nostrani si beneficiano come dovuto, visto che negli empori di questi agglomerati troviamo facilmente - e non da adesso - notevoli quantità di prodotti esterni.

Insomma: il turismo costiero (guarda caso, quello che maggiormente gonfia il nostro vanto) parla ancora di un protagonismo gestionale più o meno periferico da parte nostra. I capitali esterni facilmente hanno la meglio sulla nostra remissività territoriale. E se è pur vero che la Regione Autonoma (!) in suddette manovre ha sostenuto (e sostiene) gravi azioni complici, tutti dobbiamo sentirci in certo modo responsabili ed interpellati verso un cambio di rotta. Perché sa di presa in giro sapere che gli effetti di costose inversioni pubblicitarie (cf. proemio), defluiscano, in buona parte, entro salvadanai altrui! Perché ha del patetico dover sentire ancora oggi: “ Ma è vero che alcuni facoltosi Arabi stanno acquistando quel pezzo di costa per farci su un complesso turistico? Ah, meno male! Così almeno ci sarà qualche posticino di lavoro...!”. No! Si possono comprendere i poveri agricoltori che anni fa vendettero le loro terre costiere (ignari di quanto sarebbe poi successo)...; ma oggi...!

La mania che abbiamo di svendere casa per ottenere qualche briciola in cambio, facendoci “tzeràccus e galliòfus in domu nosta!” (anche se in un primo momento tutto brilli d' auree promesse) costerà cara alle generazioni future. Perché la verità è che non c'è somma di danaro, per quanto alta, che valga la libertà di poter disporre in casa propria... che valga l'umana e adulta (adulta!) soddisfazione che da essa (dalla libertà sovrana) scaturisce.

E il turismo di massa favorisce...? Anche in questo caso credo di no. Non si tratta d'imbastire la sagra dei “no”, ma di ragionare con profondo realismo sulle conseguenze a “largo raggio” (le più importanti!) di un certo andazzo, e capire come dietro alcuni “no”, possano librarsi tanti “sì”. È un dovere che abbiamo verso noi stessi e le generazioni in avvenire.
Il turismo di massa non è sinonimo di maggior guadagno complessivo; è anch'esso altamente inquinante e non proporzionalmente remunerante. Il rischio è di rimanere sfiancati su vari fronti.
Certo: il numero è importante per il fatturato, e va preso in considerazione; ma con misura (non so se esistano studi sul rapporto: quantità/tolleranza ecologica/proventi economici).
In quest'ottica di contenzione sarebbero da contemplare scelte rivolte ad un turismo più parsimonioso, scevre da scriteriati auspici di presenze massive funzionali ad un avido profitto dalle gambe corte. Un turismo quindi moderato nella capacità di offrirci ricchezza, ma certamente più solido in termini di continuità nel tempo. In fin dei conti è questo quel che più importa.

Un aspetto tutto bello è la valorizzazione, da parte di sempre più paesi, del proprio patrimonio ambientale, storico, culturale(incluse sagre, feste, in alcuni casi riesumate o riportate all'originale identità, attraverso rigorose ricerche storiche), artistico, architettonico, urbanistico, archeologico, gastronomico, agro-pastorale, artigianale... Si enumerano tanti imitabili esempi in questo senso. È consolante vedere paesini ben curati e con fiammanti indicazioni (quando si vuole...!): gialle, marroni... ben direzionate, non bucherellate e sequenzialmente distribuite. Tutto ciò favorisce quell'aspetto che in fin dei conti è l'anima di un turismo umanizzante, intelligente , creativo e auto-pubblicizzante: l'interazione tra ricreazione, natura e cultura. Entrambi gli aspetti sono legati alla crescita della persona. Perché anche la ricreazione, in fin dei conti, è tempo di crescita; un peculiare modo di far crescere la propria vita.

C'è di più. L'impegno nel condividere la nostra cultura col turista-ospite, può oltremodo contribuire al “riapproprio identitario”. Perché non si tratta di svendere uno sbiadito folklore da spettacolo (penso ai balli indigeni nelle piazzette di Porto Cervo o robe simili), ma una gioiosa condivisione col visitatore, di ciò che fece e fa parte del nostro vissuto. In questo senso il turismo non sarà un saccheggio mal sopportato per irrisori contentini economici; non sarà nemmeno un fattore di “annacquamento dell'identità”(tipico di certi luoghi dal turismo massivo e caotico, ove tutto è immolato sull'altare del solo profitto), ma: stimolo per la salvaguardia dell'identità, la quale in larga misura dovrà essere il “tocco peculiare” della nostra personalità turistica e sempre in larga misura: la “buona ragione” di quelle donne e uomini che scelgono di ricrearsi in casa nostra.

In tale contesto turistico-culturale, le stesse bellezze naturali acquistano più forma, volgendosi cornice pittorica di un quadro ambientalistico e antropologico. Saranno, se così si può dire, il pretesto favorente un turismo ad ampio respiro, che sa andare oltre il... bel mare. È ovvio che sarà poi il turista a fare la scelta, ma all'interno di una realtà ricreativa che che sappia connetterlo (in qualsiasi punto egli arrivi) al tutto geografico e culturale. Le coste quindi come punto di approdo e di partenza, costellate da esaustive informazioni verso l'ogni dove dell'Isola. Così facevano le nostre Madri e Padri dei Nuraghi, già allora capaci di connettere le coste con l'interno, per favorire il commercio con i popoli interagenti. Quanti esempi moderni dai nostri... Antichi!

Sappiamo che la scoperta delle zone interne è già, in parte, una realtà: passeggiate, escursioni organizzate, sport legati alla montagna,... parchi naturali, il fiorire degli agriturismi. A parziale (e spero progressiva) smentita dell'incipit di questa stessa riflessione, mi è piacevole scorgere, in qualche rivista, pubblicità su tradizionali eventi religiosi (di grande interesse culturale anche per un non cattolico), inseribili in quel turismo spirituale che ha preso forma in questi ultimi trent'anni.
Insomma: tutte iniziative che parlano di una creativa in atto. E non è poca cosa prenderne coscienza, visto che sarà la creatività consorziata la chiave per... “l'invenzione” di posti di lavoro, in un futuro molto prossimo. Sì: un turismo “migliorato e ben reinventato”, offrirebbe molti dignitosi posti di lavoro in più nella nostra Isola.

A prescindere da tali progressi, la nostra mentalità turistica necessita un notevole salto di qualità. I circa quarant'anni di rodaggio pare non ci siano bastati. Sarebbe a mio avviso proficuo che classe politica e cittadini ci dessimo spazi di riflessione per sondarne i perché.
Alcuni passi sono stati dati - come già sopra - e bisogna prenderne positivamente atto. Ma, insisto, ha da maturare una visione d'insieme, la visione del “maestro d'orchestra”, dell'interconnessione, affinché si possa parlare di industria turistica assemblata... affinché l'inversione di energie umane, ecologiche, economiche... confluisca in un equivalente e ben distribuito profitto.

Sorge a questo punto la necessità della messa in atto di una vera e propria “educazione al turismo”. Regione, Provincie e Comuni dovrebbero investirci ampie energie sostenute da sagge strategie. Non so, per esempio, quante scuole alberghiere ci siano nell'Isola e la percentuale di studenti motivati a frequentarle. I nostri giovani dovrebbero essere costantemente stimolati circa tale indirizzo ed aiutati su eventuali iniziative, onde favorire il formarsi di una solida classe imprenditrice autoctona nel settore. Altro che parassitari impieghi nel pubblico! Altro che Industria Chimica e porcherie varie! Sia chiaro: non ce l'ho coll'industria, ma con i velenosi e maleodoranti mostri chimici che tanti denari (nostri) e risorse naturali (come: acqua,...) hanno succhiato e succhiano; inconciliabili con l'altissima vocazione turistica delle nostre oasi.

Inutile nascondersi dietro un dito: industria pesante e servitù militari, oltre a mortificare la nostra sovranità territoriale, creano – lo sappiamo – sacche d'inquinamento dagli effetti devastanti; diciamo pure... mortali, per non nasconderci dietro anestetizzanti eufemismi. Andiamo quindi ben oltre la questione del solo (e chiaramente penalizzato) turismo. Prima o poi dovremo dichiarare nettamente la nostra sovrana decisione circa un problema di così enorme portata, al quale solo noi (sardi) possiamo metter fine. Aspettare che tutta l'acqua bollente si versi dalla pentola, per gridare allo scandalo... poscia, non farebbe onore alla tempistica di un Popolo che vuol dirsi: previdente custode delle proprie colline, pianure, montagne; delle proprie acque e della propria aria... dei propri bambini: della propria... dignità.

Prima di concludere, il pensiero volge di nuovo alle coste, alle spiagge; - e n-ddi torrat! (eh sì! La lingua batte...!) - . Forse, quando impareremo ad esercitare efficace sovranità sulle nostre coste, spiagge, mari, così da favorire un ambiente ricreativo sempre più sano, cordiale e bello “segundu is costuminis nostas”; quando progressivamente andremo migliorando le interazioni ambientali-culturali fra le coste e l'Isola tutta, allora potremo felicemente constatare che le (pur utili) pubblicità costiere su aeroporti e riviste, diverranno un accessorio del tutto secondario.

Ma ci sarà da lavorare con tenacia. Nessuno sarà disposto a concederci e a cederci niente. Nessuno sarà disposto a sottoscrivere nuove regole del gioco! Dovremo... dobbiamo, già ora: fare, migliorare, risanare, reinventare... tutto da noi.
Ignazio Cuncu Piano

venerdì 9 novembre 2012

INDIPENDENZA SARDA E ASCETISMO POLITICO

INDIPENDENZA SARDA E ASCETISMO POLITICO.

Sembrerebbe che sempre più cittadini sarde e sardi - seppure lentamente, in forma non omogenea e in termini politici non ancora esaustivamente compatti e incisivi - stiano... stiamo maturando una coscienza indipendentista. Ne sono contento! Un appropriato e recente revisionismo storico si sta rivelando sempre più capace di raccontarci un trascorso che parla di un Popolo capace di essere protagonista di se stesso. Di conseguenza,“gei fiat ora!”, si va sgretolando - seppure lentamente -  il dicotomico mito che da una parte sentenziava la nostra incapacità a governarci senza l'italico appoggio, e dall'altra conferiva a quello Stato il ruolo di balia prodiga verso l'insufficiente economia isolana, della serie: “ Come facciamo a sopravvivere senza il sostegno dell'Italia? Sotto l'Italia siamo economicamente facilitati/aiutati, soprattutto nei momenti di crisi...”(ditziosus nosus!). Oggi almeno stiamo scoprendo che: non proprio così, forse il contrario.

Ma torniamo al percorso indipendentista, perché di percorso si tratta. Percorso fatto di pensiero ed operatività che siano veri e propri test (per noi stessi) di crescente maturazione autodeterminante.

Esiste al momento attuale un'istanza politica di spessore ove convogliare tale cammino? Mi sembra di no. Il panorama isolano si presenta piuttosto frastagliato. Più conformazioni politiche perseguono la stessa meta con differenti tipologie. Ciò in un primo momento non è un male; può addirittura essere una ricchezza. Ma se il discorso prenderà corpo, si dovrà pian piano convergere ad una sostanziale/fruibile unità di vedute e strategie. Perché, come ovvio, l'unità nazionale si potrà ottenere solo se “insieme”: altra via democratica non c'è.
Non so come si approderà a menzionata unità: se per suffragio maggioritario verso un solo gruppo politico(che ne diverrebbe il punto di riferimento compatto) , attraverso il già citato accordo tra diversi gruppi(indipendentisti) , ...

A prescindere da tutto ciò, il nucleo della questione s'incentra sull'impostazione a monte di “un'azione politica seria e alternativa”. Risulterebbe per niente interessante un'indipendenza intessuta con le scadenti trame di sempre.

La più grande sfida degli attuali Movimenti Indipendentisti, quindi, consisterà nel “non-ricalcare” gli stessi comportamenti da loro criticati, consapevoli che ciò sia molto più difficile di quanto possa, in teoria, sembrare.

Il tutto potrebbe concretarsi soltanto attraverso una “lenta rivoluzione politica interiore”. Non quindi un drastico ribaltamento esterno, ma una nuova presa di coscienza che dovrà essere indispensabilmente personale per poter sortire autentica valenza collettiva.
Purtroppo, che la polis necessiti persone limpide ab intra , è un ritornello così coralmente e pateticamente declamato, che la messa in pratica non risulta poi così - sigh! - importante.

Volendo intessere una sorta di spiritualità laica, si potrebbe osare che solo attraverso un “ascetismo politico” si potrà intraprendere un cammino che si dica... nuovo. Lo stesso termine (politica), indica come il servizio ai cittadini possa essere svolto soltanto attraverso solidi contenuti di fondo.

Ascetismo politico. Ascetismo. Gli “ascetès” (da cui il termine ascetismo), nell'antica Grecia, erano gli atleti, i lottatori. Persone che dovevano esercitare un costante auto-dominio per evitare abiti limitanti il rendimento fisico, e fomentarne altri che lo favorissero. Tutto ciò implicava saggezza di vita, diete oculate, discernimento atto a distinguere “quali e quali atteggiamenti; quali e quali tecniche ginniche...”.

Anche in politica dovrebbe essere così. Soprattutto nel delicato e arduo impegno volto a sensibilizzare un Popolo sulla propria identità di Nazione. Non sarà certo una passeggiata ricreativa il cammino verso l'indipendenza, ma una scalata esigente, impensabile senza quel “ascetès per (il bene de') la polis” di cui sopra.
Alla stessa stregua dei ginnasti ellenici, chi intende perseguire questa meta(l'indipendenza), dovrebbe previamente discernere “quali e quali atteggiamenti(che premettono le strategie)...”, per poi viverli: nella sostanza, nella forma. Poiché non si tratta di cose scontate, che vengono da se',  in automatico.

Quali e quali atteggiamenti allora? Non so: cito alcune cose che mi paiono importanti.

In primo luogo è da evitare il più generico e già menzionato pericolo: ricalcare gli stessi errori di chi si critica. La tendenza a ripetere schemi medesimi, forse inconsciamente assimilati da quello che (per molti sardi) è l'unico panorama di confronto (il panorama italiano) : c'è e si nota.

Eccone poi uno tutto nostro: l'individualismo, il complesso del capo-tribù. Scopro l'acqua calda, lo so. Ma è veramente ora di farcela finita! Senza un impegno serio da parte di ognuno circa quest'atavico handicap, l'indipendenza rimarrà un reiterato e annoiante argomento da salotto!
Prospettive di grande portata sono state gravemente frustrate (anche in tempi recenti) a causa di miopi e futili personalismi, incapaci di interpretare i segni favorevoli del momento storico. I motivi? Fra altri: la mancata - capacità? Volontà? - (da parte di certi leader) di anteporre l'evidente maturazione della coscienza collettiva ai propri meschini posti(cini) di comando. Detto in altri termini: la mancata-democratica decisione di dare spazio alla messa in atto delle capacità altrui, ai naturali e vitali ricambi dirigenziali, considerando questi aspetti come: il miglior risultato del proprio lavoro.

Fa rabbia tutto ciò! Fa rabbia veder crollare progetti intelligenti e ben avviati per motivi stupidi(ni)! Fa rabbia vedere come simili spettacoli compromettano il capillare impegno di molti, disilludendo(cioè perdendo l'assenso di) numerose persone seriamente/validamente... pensanti e operanti. Perché laddove si vuol essere perpetui generali(ni) con tanti soldati(ni), si rimane a corto di cervelli, di personalità mature. E come la fai l'indipendenza senza la... sostanza? No: non ha senso perseguire alte mete con l'esercito di Franceschiello! Non ha senso la figura (infantile) del leader trascinatore di ( infantili e amorfe) masse (masse si fa per dire). Oggi ha senso solo e soltanto il gioco di squadra, il leader buon coordinatore, che sappia incoraggiare le specifiche creatività e confluirle il più possibile in sintesi comunitarie. La leadership diventa così un servizio denso di efficacia anche quando si svolge dietro le quinte! La leadership diviene in questo modo: servizio alla persona, da cui fluisce l'autorità. Autorità: la sola che sappia legittimare il (pur necessario) potere (politico).
Ci vuole tanta nobiltà d'animo, maturità ed equilibrio per essere leader in questo modo. E ci vuole tanta umiltà (amore alla verità, in se stessi prima e negli altri poi). Soltanto sulla base di questa nobiltà, alla luce di tale “ascesi politica”, può diventare interessante giocare il “nuovo gioco dell'indipendenza”, dove tutti giochino da protagonisti, nella semplicità: senza gli artifici che offuscano e appesantiscono l'essenziale.

In parte collegata all'anteriore aspetto, è la nostra litigiosità/invidia/non stima reciproca(anche qui niente di nuovo). Quanti treni ci ha fatto perdere! Puntigliosi, testardi e dispettosi per piccolezze, remissivi e deleganti nelle scelte di ampia portata! Dice la psicologia che a volte evidenziamo stizziti nell'altro i difetti presenti in noi. Una proiezione inconscia dell'insoddisfazione di se stessi. Sarà così anche per noi sardi? Non lo so. Se lo fosse, sarebbe proficuo vedere nei difetti culturali dell'altro/a sardo/a uno stimolo per elaborare i miei, cosciente che tutte le culture hanno punti deboli(non esistono le super-culture). Se ci accettassimo così come siamo, con pazienza e un pizzico d'umorismo per sdrammatizzare, forse riusciremmo ad e elaborare e superare con maggiore serenità..

Passiamo ora ad un dato in se' positivo: eleganza e dignità. Credo fermamente che il popolo sardo si caratterizzi per elegante dignità. Non sempre ne siamo consapevoli; e da lì la latente e deformante tendenza a scimmiottare comportamenti (spesso non i migliori) oltremare. Ma, guarda caso: il camino verso l'indipendenza è questione di eleganza e dignità. Penso a Gandhi, a la sua ferrea signorilità che lasciava razionalmente confusi ed emotivamente attoniti gl' intrusi di Sua Maestà.
Quanto sopra stride con certi reiterativi irrispettosi atteggiamenti, frasi e slogan, a colpi dei quali alcuni vorrebbero far avanzare l'indipendenza. Chi pensa di farla con tali metodi è veramente fuori dal mondo! Urla ed ingiurie(sul Governo italiano, ...)si volgono infeconde e deteriorano la buona causa.

Un'indipendenza picconata da infantili parolacce non verrà mai presa sul serio da nessun/a sardo/a pensante, e da nessun osservatore esterno che voglia prestarle seria considerazione.

La prassi moderna nel cammino indipendente può e deve essere soltanto la “non violenza attiva”(in tutti i suoi aspetti); quella di Gandhi per capirci, di Luther King, di Gesù di Nazareth. Sì: Gesù. Perché la politica è prima di tutto: azione per la persona. L'Uomo di Nazareth è un modello di promozione umana nel condiviso terreno della laicità, anche per chi non ne accolga la scelta di fede.
Ma: attenti! La non violenza, per la sua netta presa di posizione è lama a doppio taglio per chi la professa; se non sei coerente, lo scredito è subitaneo, lampante. A poco serve guarnirsi con frasi del Mahatma, se non immergi cuore, mente e volontà nella mistica non violenta, che include dinamiche totalmente aliene alla politicheria corrente.

Alla prassi non violenta abbinerei l'aspetto culturale nel suo insieme. L'indipendenza è un processo fondamentalmente culturale, al quale va addirittura sottomesso/connesso anche quello economico. Non vogliamo non essere Italia per meri motivi economici (seppure legittimi come concausa) o per astio verso questa Nazione (che va rispettata e apprezzata per le sue molteplici positività), ma, semplicemente, perché siamo una Realtà culturale/storica/etnica altra. Non mettere questi aspetti al primo posto, farebbe dell'indipendentismo un cammino fuorviante, confuso, non chiaro.
Un percorso culturale quindi, che sappia saziare le menti con solidi contenuti; che sappia rendere l'indipendenza un... percorso felicemente motivato. Perché sarà la felicità cosciente il sostegno e al contempo... il prodotto di un processo da farsi non con facce arrabbiate e risentite, ma... a testa alta.

Quanto sopra espresso dovrebbe giocoforza privilegiare l'attenzione all'ambiente della scolarità; dall'asilo ad alcuni spazi universitari, per intenderci. Pur senza privare d'importanza l'impegno su atri fronti, credo – lo reitero – che tale ambito sia da ubicare in corsia preferenziale. Non sto certo insinuando che si debbano indottrinare gli alunni! Ma che sia concesso loro un “diritto” che va al di là dell'argomento in corso: studiare la lingua e la storia del proprio Popolo. Tutto ciò in paritaria coesistenza con le altre materie.

I movimenti indipendentisti dovrebbero prendere molto a cuore tale aspetto, all'unisono. Sì: su questo punto sarebbe cosa buona creare al più presto una proficua collaborazione per fare pressione con tutti i mezzi democratici/civici/non-violenti, ... a disposizione. Per un diritto che va - mi preme riaffermare - al di là della specifica scelta indipendentista.

Proficua collaborazione... si è appena detto. La mente si sposta sulle cosiddette alleanze politiche (o meglio: collaborazione con altre entità partitiche per un preciso – non generico – obiettivo comune). Un aspetto questo che richiede oculatezza estrema, in cui i principi non negoziabili giocano un alto ruolo. L'indipendenza si disperderà in vari rivoli qualora queste (alleanze) siano indebite. Da non confondere alleanza con dialogo. Dialogo con tutti; accordi solo con chi persegue obiettivi compatibili un'indipendenza a tutto tondo, genuina, non annacquata. Escluse a priori quindi, le tendenziose unioni(di potere e non solo) che pretendano coniugare capra e cavoli...tenere i piedi su due staffe: devastanti, deludenti e non oneste.

Bene: mi fermo qui. Sono ben lontano dall'aver detto tutto e in modo esaustivo. Forse, a ben pensarci, non è nemmeno importante stilare liste comportamentali complete, visto che l'essenziale è che tutto sgorghi dal profondo di una “ mistica (laica o non) del servizio”.
                                                                                           Ignazio Cuncu Piano.

domenica 4 novembre 2012

UN'ISOLA DI CONSUMATORI?

Qualche mese fa sono stato ad Alba (Cuneo) con persone amiche. Osservavo come la campagna circostante, oltre che dai tipici vigneti, fosse in buona parte ricoperta da noccioleti. Una persona del posto ci ha spiegato. Si tratta di colture piuttosto recenti. In pratica un “ripiego”(il termine non è il più adatto) di molti giovani a causa della disoccupazione. Così, i terreni incolti dei padri sono stati riabilitati a fonte di sostentamento. Tra l'altro, a quanto pare: le nocciole rendono.
Un ritorno a ciò che fu abbandonato per l'industria. Un ritorno, tutto sommato, non traumatico. Un ritorno che, in maniera silenziosa ma capillare, sta avvenendo in più luoghi. Col mio confratello(sardo anche lui)ci siamo guardati, intuendo che pensavamo la stessa cosa: “ E da noi, con tanti disoccupati, non si potrebbe... ?”. Il ritorno alla campagna, anche in Sardegna, non è certo questione di bucolico romanticismo; nemmeno dev'essere frutto di sola necessità economica(che può esserne il legittimo detonatore), bensì: autentico riapproprio identitario. È noto a tutti come nel secondo dopoguerra, la scriteriata imposizione di un'industria massiva, non sintonica col territorio, ampiamente dispendiosa (impiego  laborale minimo  proporzionato alla popolazione. Insomma: fu, è più il danno che il guadagno) e prematuramente fallimentare, abbia inutilmente sconvolto la nostra cultura agro-pastorale-artigianale, creando alterazioni socio-economiche di grave portata. Ancora ne paghiamo le conseguenze sui due fronti, visto che per certi aspetti stiamo perdendo capra e cavoli (industria e agricoltura).
Non è tutta responsabilità dell'industria; altre istanze (la Comunità Europea, verbigrazia) hanno fatto(e fanno) il loro gioco. Ricordo in proposito quando negli anni '70 mio padre(agricoltore) parlava del famoso “premio”(?!!) per chi estirpasse le proprie vigne. E così abbiamo perso circa il 70% del patrimonio viticolo! Eppoi è arrivato il turno dei carciofi(eravamo i maggiori produttori tra i '70 e gli '80), delle barbabietole, del grano, del latte, ...

Non è nemmeno tutta colpa degli altri. Per certi aspetti siamo stati noi a lasciarci fare o a non voler più fare. Alcune Regioni, per esempio, non hanno accettato così docilmente lo sfoltimento delle colture tradizionali; o per lo meno, hanno preteso ulteriori incentivi per dar luogo a redditizie alternative.

Non è colpa nemmeno del mare: “Il mare penalizza”. Ci è stato sempre detto: “ Aumenta i costi di esportazione...”. C'è del vero in tutto ciò. Ma: attenzione! Come mai il mare non impedisce la massiccia importazione di ogni sorta di prodotti? Come mai i famigerati costi addizionali di trasporto non incidono sul prezzo addirittura inferiore agli equivalenti prodotti locali? Un risparmio al minuto che, paradossalmente, impoverisce il complessivo assetto economico dell'Isola, favorendo una situazione di stallo. Un agricoltore amico, di un paese ad alta vocazione orticola, fu lapidario: “La concorrenza del mercato oltremare ci spiazza!”. Non è quindi il mare la causa dei nostri problemi, ma i percorsi di mercato tracciati ad arbitrio di alcuni per pilotarne i profitti.
Influisce non poco la nostra ritrosia a consorziarci. Penso ai pastori: quanto meglio si potrebbe piazzare il nostro buon latte e i suoi ottimi prodotti (in Sardegna ed oltre) se ci si unisse in solide cooperative di vendita capaci di trattare direttamente con le piazze, bypassando grossisti o imprenditori sanguisuga? Qualcosa in questo senso, pian pianino si sta muovendo. Sarà questione di continuare e non demordere: abbiamo un'alta qualità che vale la pena dichiarare e difendere, con aderenti nomenclature d'origine! Quindi: niente fuorvianti/sovrapposti “Romani Pecorini ruba-meriti(e danari!)” o quant'altro. In questo caso sarebbe più che opportuno optare per la battaglia (vinta) dei Friulani, che hano ottenuto, per i propri prodotti, il marchio "Made in Friuli" ! 

Al momento la nostra realtà non è quindi tra le migliori. Suddetti peripli economici, purtroppo, hanno fatto di noi un'Isola di Consumatori! Consumiamo prodotti che potremmo coltivare nel nostro privilegiato clima: ammortizzando costi, gustando sapori, favorendo dignitoso benessere nel territorio, limitando l'inquinamento del pianeta. Le nostre campagne invece languiscono ampiamente incolte, spesso ridotte a pattume; umiliate nella loro generosa capacità di offrirci bontà nostrane a portata di mano.

In tutti i modi, è da ammettere che la minaccia peggiore (per l'agricoltura), è che siamo diventati troppo... comodi! E qui, più o meno, tutto il mondo è paese! Ma, ahinoi, la brutta piega ci si ritorce contro in tutto l'orbe, perché schifare la terra equivale a sputare nel piatto in cui mangi!
Il tema è complesso. Ma il “ritorno alla terra” è una questione da affrontare seriamente, a livello planetario, in un futuro più che prossimo. Un passo difficile ma dovuto e in parte, come già sopra, in atto. In valli montane, pianure, possiamo incontrare giovani vocati all'allevamento e alle colture, abbinando spesso le sagge usanze dei bisnonni ad attuali(e spesso inedite) tecniche. Scelte coraggiose, in molti casi avviate da zero. Scelte che non sempre rispondono a necessità economiche, ma al desiderio di ritrovare un nuovo stile di vita: in armonia con l'ambiente, con meno pretese economiche, prescindente da costose cianfrusaglie, densa di soddisfazioni autentiche.
Anche nell'Isola si possono contemplare felici iniziative su questa linea: aziende agricole ben amministrate, coltivazioni biologiche, sperimentazioni innovative, filiere corte, allevamenti genuini, agriturismi ben curati,... paesi che s'impegnano a valorizzare meglio i prodotti (anche attraverso sagre, feste, pagine internet),... La speranza è che queste cose belle e buone progrediscano, onde creare una positività strutturale. Per il momento ci sono ancora troppi... vuoti, in mezzo.
Alcuni paesi, per esempio, hanno dismesso con certa leggerezza la vocazione campestre. I motivi possono essere plausibili: agricoltori e allevatori sono penalizzati. Penso alla disparità tra i prezzi dei macchinari, concimi, mangimi e quelli dei prodotti... Insomma: tanto sacrificio e poco tornaconto(chi non dipende direttamente “dalla terra”, forse non può capire del tutto...).
Ha inciso anche il parziale ricambio generazionale: molti figli si sono orientati verso altre scelte. Esistono poi cause locali, che variano da paese a paese. Non sarebbe male che ogni comunità si desse occasioni per rifletterci su.
E l'industria? Va del tutto esorcizzata? No. In Sardegna non è fallita l'industria, ma: l'industria così concepita. La mastodontica Chimica di cui sopra: inconciliabile con la realtà nostrana. Un pugno nell'occhio per il delicatissimo equilibrio ecologico dell'Isola! - “Facile dirlo col senno del poi!” -   Non è proprio così. Ai tempi, più voci chiamarono in causa l'opinione pubblica, la classe politica, suggerendo alternative contenute, più simbiotiche, all'insegna della novità nella continuità. Voci inascoltate! L'affanno per italianizzare Sandalios al miglior stile “copia-incolla” , il profitto di pochi - politica complice -, ebbero la meglio.

In tutti i modi, ciò che conta è che oggi un cambiamento di rotta è possibile! Gli esempi ci sono. I noccioleti albesi citati in proemio. I tanti orti che stanno nascendo nelle periferie cittadine. Penso alla regione della Ruhr (Germania) che sta riconvertendo la sua trascorsa dedizione all'industria mineraria...
Miniere! Il pensiero volge alla cara regione del Sulcis, alla tradizione mineraria che i giovani vogliono mantenere come prospettiva di lavoro. La miniera per loro è una realtà radicata, tramandata da padre in figlio. D'altro canto però, non si può non osservare un Sulcis ove il lavoro agricolo sia ampiamente sguarnito. Le cause sono varie e complesse, dalle radici profonde. Potremmo addirittura risalire alle Compagnie inglesi che tra il XIX e XX secolo, impossessandosi di parte del territorio violentarono la vocazione agro-pastorale di queste genti obbligandole al massacrante ed insalubre lavoro del sottosuolo, pagandole con buoni da consumare in empori delle Compagnie medesime, creando apposite differenze sociali, facendo in modo che i bambini non avessero altra prospettiva se non la miniera, favorendo una mentalità schiavizzante, a senso unico.

Torniamo al cambiamento di rotta. Sarà possibile nell'Isola? Sì. Si può e si deve. Così come siamo, non si andrà avanti per molto. Come si cambia? Con creatività, rischiando di persona, convincendoci sempre più che i nostri interessi interessano solo a... noi(e quindi - noi -  dobbiamo difenderli, rimboccandoci - noi! - le maniche, sapendo che dall'alto, cioè dalla politica, in questo momento storico, c'è poco-niente da aspettarsi), mettendo da parte quell'apatica “comodità delegante”, sulla quale abbiamo imparato a piangere abbastanza... comodamente. 
                                                                                                        (Ignazio Cuncu Piano)