martedì 25 novembre 2014

PIÙ LINGUA SARDA: MENO CRISI

Qualche giorno fa ho visto un interessante programma televisivo su alcune scuole friulane, dove s'insegna ai bambini l'autentico furlan (la lingua friulana); quello dei nonni, non annacquato da italianismi, per capirci. Che bello!

La mia mente è volata subito subito in Sardegna. Anche da noi, in alcuni asili e scuole primarie, si porta avanti questa coltissima e modernissima esperienza, alla quale, qualche mese fa, anche il TG2 ha dedicato un servizio.

Sì: imparare la "lingua materna fin dall'asilo", ripeto: è la scelta più... "cool" , più protesa verso un presente/futuro arricchente (in tutti i sensi) che possa fare il nostro Popolo. 

Allo stesso modo, sono convinto che riparlare in sardo (o continuare a farlo, per chi non l'abbia mai dismesso) sia anche la forma più efficace per superare la crisi economica. Ma cosa c'entra la soluzione della crisi con un desiderio che alcuni interpretano come da... obsoleto romanticismo? C'entra eccome! Riappropriarsi della lingua significa riacquistare sano orgoglio verso la propria cultura (di cui la lingua è fedele interprete, privilegiato strumento veicolare), la quale incrementa il senso d'appartenenza verso le proprie genti, il territorio; quindi anche verso le proprie tradizioni economiche. Tutto ciò favorisce la creatività verso una discreta, oculata e intelligente economia (la sfrenata economia è, alla fin fine, una chimera che logora il territorio, la cultura, la felicità... la vita tutta). 

 Se ci facciamo caso, una fra le cause (forse la maggiore) della crisi economica sarda (crisi già esistente molto, ma molto prima della... crisi!), radica proprio nella frattura indotta (nel secondo dopoguerra) tra l'economia tradizionale di micro-medie dimensioni, e quella pseudo moderna macrodimensionata, totalmente non simbiotica alle tradizioni e alla geografia dell'Isola, quindi devastante in tutti i sensi. Perché, ci fa bene ribadirlo: l'economia è parte della cultura. Staccare quest'imporante aspetto antropologico (l'economia, per l'appunto) dal resto dell'imbastitura culturale di un popolo, significa farlo diventare un pericoloso masso rotolante.  

Non è casuale che il Friuli - giusto per stare alla stessa analogia - abbia un'economia più che dignitosa, e malgrado tutto resistente alla crisi attuale, proprio perché sostenuta da una solida ed efficace sinergia fra tradizione e innovazione.

Quindi rivolgiamoci fieri alla lingua e proclamiamo senza tentennamenti di sorta: " A chentos e prus sa limba sadra [lunga vita alla lingua sarda]!". Lingua... propultrice di positività d'animo; lingua... propultrice del superamento di tanti piccoli e grandi problemi.

E le altre lingue?! Niente paura! I giovani che studiano seriamente il sardo, sono in media quelli che sanno più lingue.  Penso, ad esempio, a Riccardo Laconi, lo studente che nel 2013 sostenne l'esame (di terza media) in sardo (col massimo dei voti), portando come materia principale: la bioedilizia (ov'erano incluse: tecniche vecchie e nuove della costruzione in mattoni crudi) e lo sviluppo biosostenibile (da notare - guarda caso! - la relazione: lingua, ambiente, economia). Quest'adolescente che in tutta normalità definisce il sardo come sua lingua madre, parla: l'italiano, l'inglese, il francese e sta imparando il tedesco.

Mah, che strano: com'è possibile che la lingua sarda predisponga ad altre lingue?! Ma non c'avevano detto che...?!

Forse di strano non c'è niente. Credo invece  si tratti di una normale positiva reazione a catena, della serie: "Il bello invoglia al bello". La valorizzazione della propria cultura (e lingua) è la "base sana" che predispone sentimenti, mente e volontà al desiderio di conoscere e valorizzare anche quelle di altri popoli. 

Con buona pace di quegli pseudo-intellettuali che per decenni ci hanno fatto credere che parlare in sardo ci precludeva l'apertura verso l'alterità linguistica, culturale ed economica.

                                                                                                 Ignazio Cuncu Piano.

sabato 22 novembre 2014

NAZIONE SARDA : UNA SCELTA AL PASSO COI TEMPI.

La cosa più avanguardistica, innovativa (in tutti i sensi, incluso quello economico) che possiamo fare noi Sardi in questo momento storico, è innescare un processo di maturazione/coscientizzazione propedeutico all'autodeterminazione. Far diventare la Sardegna una Nazione. Impossibile? No! Quel che han fatto etnie più piccole e deboli di noi non può essere per noi impossibile. Il resto sono scuse!

È chiaro che non si tratterà di una passeggiata: ma le cose belle e importanti sono, per natura, impegnative. Ammenoché non scegliamo di vivere nella mediocrità (che non è mai mediocrità, ma corsia preferenziale dell'infelicità). Per carità: è una scelta anche questa; la più comoda. Ma poi, se le cose andranno immancabilmente male: non lamentiamoci!


Inoltre, per farla ancor meno difficile del dovuto: questa scelta sarebbe nient'altro che l'attestazione politica di una fisionomia già insita nel nostro bagaglio storico/antropologico. 

Perché di fatto, la Sardegna: è una Nazione. Credo che tale percorso di maturazione sia, tra l'altro, l'unico modo per risolvere – noi stessi! - i problemi di... noi stessi. Ostinarsi a pensare che qualcuno, dall'alto di qualche colle romano o da chissà dove, possa risolvere i nostri problemi, è una pia illusione che ci sta lasciando letteralmente in mutande; senza carro e senza buoi. 

Molti cittadini (sardi) sono già protesi verso la meta dell'autodeterminazione; altri lo sono in potenza; forse aspettano la conformazione di un consistente Movimento o Partito (non ancora apparso, o apparso fugacemente, nel panorama isolano) capace di fare da collante: convogliando, valorizzando e sintetizzando le energie dei singoli. Un Movimento o Partito, capace di proporre nuove modalità di fare politica, alternative a quelle stantie e autoritaristiche (puerili) esistenti nell'attuale panorama italiano e sardo (visto che anche i gruppi indipendentisti, tendenzialmente, stanno usando - forse senza accorgersene - quelle medesime italiche modalità da essi stessi criticate)

Perché diventare nazione? Perché i sardi non saremo mai italiani, così come l'aceto non sarà mai olio, e la benzina non sarà mai acqua. Il desiderio (o la tendenza indotta) di confluire in un'identità italiana, farà (sta facendo) del popolo sardo un vero e proprio ibrido. E gli ibridi, lo sappiamo, sono infecondi, non generativi, vocati all'estinzione. La storia insegna. È un'affermazione che faccio senza polemica, con pieno rispetto per la nazione italiana, di cui semplicemente non siamo parte; e con la quale, paradossalmente, riusciremo ad avere un'interlocuzione arricchente solo quando potremo apprezzarla come realtà culturale/politica/economica "altra da noi", e non come sovrapposizione, entità egemone e frustrante, come accade nell'adesso storico. 

Sono convinto che nel futuro molto prossimo tante altre etnie (piccole ma ricche di cultura e di economia, come quella sarda) sostanzieranno l'avanguardistica scelta dell'autodeterminazione. Non aspettiamo sempre che siano gli altri a lanciar le mode! Iniziamocela da noi stessi! La Sardegna – contrariamente al falso pensare (ancora troppo) comune - enumera nei suoi trascorsi  molti gesti innovativi, all'avanguardia (giusto per fare un esempio: già prima che l'Impero Romano esistesse)

Facciamo onore alla nostra tradizione storica!

                                                                                                Ignazio Cuncu Piano

venerdì 31 ottobre 2014

OPERAI E FORZE DELL'ORDINE

Mercoledì scorso, circa 600 operai hanno manifestato a Roma: “Perché la ThyssenKrupp vuole licenziare 537 dipendenti delle acciaierie di Terni” (Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre, 2014). Una protesta più che legittima. Legittima pure la rabbia degli operai, alimentata dalla snervante incertezza sull'immediato futuro lavorativo, sulla vivenza delle proprie famiglie.

Non è esagerato affermare che in un certo senso questi operai, intrappolati nell'attuale momento storico, stiano vivendo la tipica preoccupazione del povero, ossia la non gradevole tensione del “vivere alla giornata”, senza la certezza del domani (inteso come: giorno successivo).

Alla manifestazione, chiaramente, erano presenti le forze dell'ordine, per garantire dovuta contenzione. Spesso in circostanze come queste, soprattutto quando la pazienza di chi protesta è al limite (per i motivi più sopra sintetizzati), s'innestano azioni che vanno oltre; e la polizia è giocoforza costretta ad intervenire in modo proporzionato o sproporzionato talvolta.

Anche mercoledì scorso pare sia accaduto qualcosa di simile.

La reazioni dei sindacati e del Parlamento è stata di sdegno contro le esagerazioni degli uomini in divisa, di dolore e solidarietà verso i manifestanti malmenati. Mah!!   Il "mah" - mi preme chiarire - non è rivolto ai feriti (operai, agenti), ma ai sindacati e al Parlamento.

Non rientra infatti nelle mie intenzioni trattare sull'eventuale responsabilità della polizia, degli operai, ne' prendere le difese di questi o quelli. E per sventare dubbi: ho partecipato anch'io a manifestazioni di popolo in luoghi (non in Italia) ove la polizia è ancora strutturalmete violenta, ufficiosamente autorizzata a reprimere fino alle più estreme conseguenze.

In questa riflessione vorrei semplicemente sottolineare un altro aspetto del dramma in questione, quello più preoccupante a mio avviso: l'enorme ipocrisia di politicanti inetti, capaci di stracciarsi le vesti - con ridicola e mal mimata fermezza – solo e solamente per eventuali abusi delle forze di polizia, riducendo un dramma così profondo e complesso (quello della classe operaia ormai in via di estinzione!), al solo gesto di un gruppo di altri figli del popolo (gli agenti) che svolgono un lavoro mal pagato in proporzione ai rischi in esso implicati.

Ci vuole una buona dose di meschinità, non c'è che dire! Meschinità sotto la quale si cela la trilogia del: non so, non posso, non voglio. Abbiamo infatti una classe politica che non sa fare, perché composta in ampia parte da individui giunti alla seggiola più per faccia tosta e accozzi che per capacità. Abbiamo una classe politica che non può fare, perché asservita ai diktat delle eminenze grigie che pilotano le nefaste leggi dell'economia (e della politica). Abbiamo una classe politica che non vuol fare, per evitare di essere punita severamente dalle grigie eminenze del mercato e per non perdere quei contentini (privilegi) concessi da queste ultime, a patto che se ne stia a cuccia e inerte!

Questa è la ciurma che si permette di sentenziare dall'alto (chi si guadagna il pane stando in prima linea) e di esprimere patetiche solidarietà, mantenendo però dovuta distanza da piazze e strade: unici luoghi dove sempre più persone son ridotte ad esprimere il loro disagio. Perché – vale la pena ribadirlo – nelle piazze e nelle strade i veri responsabili di certe derive, non ci sono mai. Una pusillanime assenza che dà vita ad uno dei più tristi paradossi sociali: la rabbia degenera in una guerra tra poveri: operai e agenti delle forze dell'ordine, per esempio. Cosicché questi ultimi (in gran parte giovani) diventano, in un certo senso, il volto colpevole di defezioni altrui.

È doveroso - per quanto difficile al momento dei fatti -  non cadere in questo nefasto paradosso, che ha come unico risultato l'affievolimento della coesione sociale: humus necessario per far fronte civilmente e democraticamente alle sottili ma potenziate violenze perpetrate da ben altri ambiti.  

Persino Pier Paolo Pasolini, commentando le cruente manifesazioni degli anni '60/ '70, ebbe la lucidezza e l'onestà di dichiarare come i (peraltro non teneri) celerini non fossero minimamente la parte da avversare, perché figli delle classi sociali più affamate: uomini che  riuscirono forse a migliorare il salario un po' più dei propri padri; ma al prezzo di un lavoro altamente rischioso.

Quanto detto finora, ovviamente, non vuole eludere responsabilità oggettive - quando ve ne siano - da parte di manifestanti e  forze dell'ordine.

Nemmeno desidero mettere nello stesso mazzo tutti i politici. Ci sono tanti uomini e donne che onorano il nobile servizim alla polis con impegno, onestà, diligenza e sensibilità.

Ed ora una proposta salutare per sedicenti servitori dello Stato!

Durante una prossima manifestazione di operai con nervi a pezzi per ovvie ragioni, cari politici al servizio dei cittadini, non mandate i ragazzi delle forze dell'ordine. Sono troppo giovani: possono innervosirsi quindi commettere imprudenze. Andateci voi! Posizionatevi di fronte ai manifestanti. Dialogate con loro: viso a viso. Spiegate cosa realmente potete e non potete fare circa i drammi che li tormentano. Insomma: fate opera di contenzione, rassenerateli. Di certo saprete offrire parole persuasive, più di poliziotti, carabinieri e finanzieri.

Fate quest'esperienza, almeno per una volta! Eppoi ne riparliamo.

                                                                                  Ignazio Cuncu Piano





domenica 26 ottobre 2014

PARLARE CON DIO IN LINGUA SARDA.

Accolgo con gioia e soddisfazione la notizia sull'Unione Sarda di oggi: "... Lingua sarda nel rito: prime aperture". Non c'è dubbio che questa saggia decisione dei Vescovi sia una risposta - oltre che al buon senso - all'accorato anelo non solo di moltissimi fedeli, ma anche di coloro che pur non avendo fatto una scelta di fede, sanno leggere nell'enorme serbatorio sacro "in limba", un non indifferente Patrimonio dell'Umanità. Una ricchezza che beneficia i sardi e l'Umanità intera quindi (la quale attinge unicamente dalla cultura di ogni popolo di cui è composta).

Se c'era qualcuno - soprattutto negli ambiti clericali - che serbava dei dubbi circa l'idoneità della lingua (sarda) ad esprimere concetti liturgici, teologici, o formule sacramentali, questa notizia reca una smentita finale. Si è trattato di un dubbio tanto dannoso quanto sciocco, del tutto anticulturale, che ha arrecato solo danni e ritardi! Perché - siamo seri! - se si può esprimere una formula sacramentale in cinese, in malayalam, in lingua curda o kirghisa, in furlan o in kirundi: qualcuno saprebbe spiegarci perché in lingua sarda no? Del resto: le nostre Genti hanno parlato in sardo - con Dio - per circa duemila anni. E Dio le ha sempre ascoltate e... capite!

Mi sia concesso ora un amabile rimprovero ai nostri Presuli: "Ben svegliati cari Vescovi sardi! Perché - siate sinceri! - finora non avete mai dato peso all'importanza della liturgia in lingua madre, prestando disattento ascolto ai tanti del Popolo di Dio che ve lo chiedevano. Ora, siccome lo auspica il Papa...!". Ad ogni modo: meglio tardi che mai.

Questa "estetica" decisione dei Vescovi, porta anche una sfumatura di dovuto ripristino, di azione riparatrice. Alcuni - molti? - preti infatti, interpretando malamente il Vatcano II (che da tutt'altra parte andava), si arrogarono il diritto di eliminare, dall'oggi al domani e senza consultare la comunità dei fedeli (!), preziosi riti in sardo, densi di spiritualità millenaria tramandataci dai nostri progenitori nella fede. Come fu possibile che questi capolavori della devozione siano stati considerati, di punto in bianco, inadatti alla trasmissine di così alta spiritualità. La risposta c'è, ed è alquanto superficiale: stava prendendo piede la moda dell'italiano, la moda del... moderno. Moderno: vaga chimera; termine ambiguo e pericoloso, di fronte al quale, tutti i termini di contrappasso (come, ad esempio: antico) dovevano tramutarsi, per forza, in mali da estirpare sì o sì.

Ma sembra che Dio se ne infischi degli imposti pseudo-concetti di modernità! E anche Maria Santissima. E così, quando la Madre di Dio apparve a Bernadette Soubirous (1858), non le parlò in "francese moderno", ma in occitano. E se la veggente fosse vissuta ad Uras, a Nuxis, a Mandas, a Bitti, a Tissi, al Ales, a Monastir, a Nuragus, a Sestu, a Soleminis o a Sinnai, la Vergine Maria le avrebbe parlato in sardo (e non in altra lingua teologicamente più affine), per manifestarle niente meno che la personale  approvazione circa un dogma di fede.

Eppoi: l'animo innamorato di Dio, è capace di conformare, di forgiare e cesellare... "nuovo linguaggio dentro il linguaggio": modificando termini e creandone di nuovi, così da rendere la lingua stessa più malleabile nell'interpretazione ed espressione delle sublimi manifestazioni che lo Spirito Santo sa suscitare nel dialogo creativo tra l'anima e Dio. È quello che succede, per esempio, nei Goccius, ove troviamo termini specifici al sacro, non usati nel parlare corrente; è quello che succede anche nella lingua italiana e in altre lingue. Chi conosce a fondo l'inglese, per esempio, sa che nel leggere la bibbia o un libro di mistica cristiana, potrà trovare innumerevoli vocaboli sconosciuti al linguaggio ordinario, sia per la loro arcaicità, sia per la specificità di ciò che esprimono.

L'esperienza degli autori sacri è emblematica al riguardo: pensiamo ad esempio all'evangelita Giovanni, che spesso ha spesso esposto la fraseologia greca al limite della grammatica, per esprimere con più aderenza possibile l'inesprimibile bellezza del Messaggio divino. O alle sgrammaticature e spesso sgraziature di alcuni versetti biblici, attraverso i quali, paradossalmente, Dio ci condivide aspetti - di per se' indicibili - di se stesso.

Nella stessa linea: pensiamo all'Antico Testamento nel suo insieme. Fu redatto in una lingua essenziale, ricca di non troppi vocaboli, tendenzialmente basata sul visibile, finalizzata a descrivere un ambito agropastorale, quindi poco affine ad esprimere l'eterno. Eppure Dio face la sua strana scelta; pur potendo disporre già da allora - nello stesso bacino del Mediterraneo e nella geografia medio-orientale - di lingue più raffinate ed evolute!

Riassumendo: non solo la lingua sarda è idonea al sacro, ma attraverso il compendio dei testi sacri auspicata dai nostri Presuli (speriamo che si faccia davvero!), la lingua sarda-sacra ci restituirà alla memoria innumerevoli-poco noti-espressivi vocaboli. C'è di più: la ripresa della preghiera in sardo, contribuirà, coe già sopra, alla nascita di ulteriori termini, che in modo sempre più vivo e attuale, sapranno esprimere la progressiva maturazione della comunità dei credenti all'interno dell'inesauribile bellezza delle cose di Dio.

Questa nuova avventura "nella fede", ci riavvicinerà, lo auguro, alla genuinità del nostro essere Chiesa Cattolica: un unico messaggio di salvezza inculturato nello specifico humus de tutti gli uomini: " Di ogni tribù, lingua, popolo e nazione" (Apocalisse 5, 9b).
                                                              
                                                                            Ignazio cuncu Piano.
 
 

domenica 14 settembre 2014

PER FAVORE... SVEGLIATEVI !

Mi permetto di riproporre l'accorata lettera scritta da padre Albino Pizzotto (esperienza missionaria in America Latina, fondatore del movimento " Beati i costruttori di Pace", da anni schierato contro la fame, la guerra e lo sfruttamento selvaggio del pianeta) ai Vescovi, invitandoli a prendere posizione contro le basi militari, quali "strutture di peccato". La lettera non è stata scritta in data recente, ma il suo contenuto è denso di drammatica attualità. Il titolo "Per favore... svegliatevi" , è una mia aggiunta, non fa parte della lettera di don Albino. Personalmente la invierò a tutti i Vescovi sardi, ai quali già scrissi qualche anno fa circa il tema in questione, ri-invitandoli cordialmente a... "sin-ddi scidai!" (a svegliarsi). A pronunciarsi con coraggio e determinazione di fronte al commercio di morte che sfacciatamente circola nelle loro Diocesi.
Ieri il Papa, a Redipuglia, ha ricordato (e non è la prima volta) come la guerra sia una follia di sangue che arricchisce molti.    

Ecco la lettera di don Albino.

Carissimi fratelli Vescovi:

a conclusione del seminario "Globalizzazione e Giubileo", tenutosi davanti alla base USAF di Aviano, dal 6 al 9 agosto 2000, vi abbiamo inviato una lettera nella quale vi rivolgevamo un pressante invito a denunciare come "strutture di peccato" la produzione e il commercio delle armi e "a prendere in considerazione le tematiche della pace e della nonviolenza,
come esige il Vangelo, per un programma pastorale che sia di guida e di orientamento a tutte le Chiese".
Sappiamo che in occasione del Giubileo dei Militari nel settembre 2000 è stato recapitato a tutti i Vescovi italiani il documento "Superare la guerra", redatto dai volontari e obiettori di coscienza dell'Associazione Papa Giovanni XXIII  Operazione Colomba.
Il Papa, nel suo messaggio per la pace del primo gennaio di quest'anno, parla di "scelte improcrastinabili" e di "scelte concrete e tempestive" proprio riguardo alla preoccupante crescita degli armamenti e al "permanente rischio di conflitti tra nazioni, di guerre civili all'interno
di vari Stati e di una violenza diffusa". A conclusione il Papa afferma che la riconciliazione e il perdono, nella visione cristiana, sono "l'unica via per raggiungere la meta della pace ", sebbene "molti, in nome di un realismo disincantato", reputino "questa strada utopistica ed ingenua"; .è
quanto dire la valenza anche politica della nonviolenza.
Anche le vicende legate all'uso dell'uranio impoverito hanno mostrato di quali menzogne e imbrogli si nutrono e vengono mascherate tutte le guerre, anche quelle giustificate dalla comunità internazionale come "ingerenza umanitaria".
Siamo appena tornati da un'azione internazionale nonviolenta di pace per l'Africa, realizzata a Butembo nella Repubblica Democratica del Congo.
Abbiamo aperto gli occhi sull'olocausto dei nostri giorni, milioni (ma proprio milioni) di uccisi nel silenzio e nell'indifferenza più totali, con le nostre armi e per i nostri interessi! Anche le Chiese locali di quei paesi si sentono abbandonate; non riescono a capacitarsi, perché la loro
voce non riesca a giungere alle nostre comunità, nonostante la loro coraggiosa testimonianza, a volte a costo della vita, di opposizione alla guerra con la nonviolenza. Eppure abbiamo sperimentato che anche un piccolo gesto di solidarietà è capace di far esplodere la speranza della gente e anticipare la festa della pace.
Ad Aviano, si sta completando una ristrutturazione di potenza e di guerra in una delle basi militari più grandi del mondo anche questa nel silenzio e nell'indifferenza. Il primo aprile prossimo ritorneremo a percorrere il tratto Pordenone-Aviano, in una Via Crucis che renda concreto il nostro impegno di conversione sia personale che strutturale. Quest'anno ci saranno
due Vescovi a camminare con noi, un altro interverrà dall'Africa. per noi è un segno che ci riempie di gioia e di speranza.
La pace, dono del Risorto, è la Sua prima parola creatrice dopo la Risurrezione e costituisce il fondamento e la caratteristica della nuova comunità dei discepoli. Ma per Lui la pace è stata così diretta e concreta da portarlo sulla croce; la Sua pace è il frutto della croce.
Siamo ben coscienti di essere servi inutili, ma continuiamo a rivolgerci a voi con fiducia, perché vorremmo che la pace non venga ridotta ad alcune iniziative o celebrazioni, ma informi la fede e quindi la prassi pastorale di tutte le comunità, affinché lo specifico cristiano dell'amore al nemico, della riconciliazione e del perdono non venga proposto solo come consiglio
evangelico di perfezione per singole persone, ma si traduca in cammino comunitario che coinvolga la vita privata, ma anche politica, le coscienze e le strutture.
Oggi molti soffrono dello sconcerto per le scelte egoistiche ed individualiste di tanta parte della società e per l'insignificanza della fede e della pratica religiosa, specialmente nei giovani. C'è sete di testimonianze coraggiose e credibili; non di singoli o di gruppi, ma di comunità vive.
Per questo chiediamo anche a voi:
· Di aiutarci ad approfondire la centralità teologica della pace, anche nella concretezza storica e nella traduzione pastorale. Come strumento specifico vi chiediamo di rimettere in onore e rendere operativa, sia a livello nazionale che locale la commissione "Giustizia e Pace" e non
accorparla in appendice alla "Commissione pastorale del Lavoro".
· Essere presenti, sostenere, incoraggiare, le comunità ecclesiali a partecipare, a sporcarsi nelle iniziative che il complessivo movimento della pace e della nonviolenza da anni sta promovendo.
· Darci orientamenti e pronunciamenti di magistero, sulle scelte che riguardano le sfide più grandi dell'umanità, che aiutino a mettere a fuoco obiettivi e percorsi contro le strutture di morte, per un'economia a servizio dell'uomo, per la salvaguardia del creato, per il rispetto dei
diritti umani, che impegnino comunitariamente, senza accettare una relativizzazione totale, che permette anche nella Chiesa di scegliere tutto e il contrario di tutto, con grande confusione e delusione specialmente da parte dei giovani.
Anche a Voi chiediamo di prendere posizione su scelte concrete con "parresia" nei confronti dei vari poteri di questo mondo, anche a costo di entrare in conflitto con il potere costituito, come di fatto è successo a Gesù.
Come potrete immaginare, per noi è troppo importante una vostra risposta, che attendiamo anche come segno della comunione ecclesiale che ci lega tutti all'unico Signore, il Principe della Pace.
Pace e gioia a tutti,
p. l'associazione "Beati i Costruttori di Pace"
don Albino Bizzotto

sabato 26 luglio 2014

TAMPOCO YO TE CONDENO (Jn 8, 11)

Como soy un Religioso, quiero contarles que la vida comunitaria - para los/as Consagradas - es un aspecto muy central. Practicamente es el caldo de cultivo donde madura nuestro amor. Puedo ser un santito con la gente de afuera, mas si soy un “mala leche” con los mios, de poco sirve mi semblante angelical.

En fin: los/as Religiosos/as damos testimonio cuando nos queremos primeramente entre nosotros/as (cfr. Jn 13,35). La vida en comùn reclama mucho realismo: se comparte el Evangelio, el proyecto congregacional; pero tambièn: el caràcter, el temperamento... riquezas y fragilidades de cada uno. Tanta molteplicidad, si no es afinada a travès del empeño de todos, en lugar de sinfonìas puede dar lugar a... ¡cacofonias!

¡Tarea bella y ardua la vida comunitaria! Para muchos Santos ha sido el crisol de su misma santificaciòn.

La comunidad puede ser el anticipo del cielo (cfr. Sal 133). Asimismo: teatro de conflictos extremos, al punto de fracturarse irremediablemente. Cuando jòven Religioso, quedaba muy escandalizado frente a episodios similares. Ahora no: los años – y la conciencia de mis defectos – me regalaron el don de la comprensiòn hacia la misteriosa complejidad del ànimo humano.

No siempre la baja calidad relacional - en las comunidades religiosas -  es el fruto de la indisposiciòn de sus miembros. Juegan en contra factores como: traumas infantiles no superados, trabas afectivas, incapacidad para expresar emociones, acumulaciòn de malentendidos, asperezas caracteriales, rigidez de opiniones, incapacidad de pilotear ciertas tensiones.

A menudo los Religioso que padecen estos conflictos, son personas de mucho bièn; llevan con dignidad y ofrecimiento espiritual la cruz que les tocò, aceptando aquello que no tan facilmente pueden cambiar en ellos y/o en los demàs cohermanos.

Algo parecido se podrìa afrimar en àmbito matrimonial. Por cierto la especificidad sacramental une a los cònyugues (transformàndoles en una nueva realidad inscindible) de forma distinta que los Religiosos; pero los mecanismos de la relaciòn son muy similares. Tambièn en este tipo de conflictos juegan variados factores. Cada crìsis es distinta a otra en cuanto a causales y consecuencias de las mismas.

Asì como para los Religiosos, a los conyugues la separaciòn fìsica se propone - en muchos casos - como extrema-dolorosa instancia. Una separaciòn conlleva siempre mucho duelo, aun cuando no parece que asì sea. Se sufre en razòn de un sueño quebrado, por los hijos, por un camino de fe obnubilado por el fracaso de ese “para toda la vida” prometido a Dios, ...

En base a estos preàmbulos, el prejuicio que configuraba a los cristianos que viven el drama del divorcio como “pecadores pùblicos, personas a condenar/anotar al margen” pierde definitivamente su razòn de existir. Afortunadamente hoy en la Comunidad Eclesial, estas actitudes condenatoria van progresivamente mermando a favor de comprensiòn y respeto, pese a que todavìa quede camino por hacer.

Tambièn la situaciòn de los divorciados en nueva uniòn (de ahora en adelante: DNU), aunque radicalmente diferente a la de los separados fieles al vìnculo, ha asistido una evoluciòn profunda con respecto a la mirada del Magisterio: “Hoy dia el Magisterio, desde la Familiaris Consortio y las encìclicas que siguieron, habla de atenciòn a estas personas, de cariño pastoral, de comprensiòn, de cercanìa, de aliento. Puede que falte mucho por comprender [...] pero esta nueva actitud està en la direcciòn justa” (Carlo Maria Martini, Io vi sarò propizio, Ed. Paoline, Milano, 2002, p. 85). No se trata de caer en la tentaciòn simplista frente a la cual todo diere igual, sino de tratar la problemàtica valoràndo los aspectos de inclusiòn, y no de exclusiòn apriorìstica. Y por sobre todo: proponiendo (a los DNU) un vàlido itinerario de crecimiento humano/ espiritual dentro de la misma Comunidad Eclesial.

Me preme aclarar que al hablar de DNU, no me refiero a quienes viven en concubinato (condiciòn que nada tiene que ver con el estado de los NDU), sino a aquellas : “Parejas [catòlicas] que se presentan casados invalidamente [en nuestro caso: vueltos a casar tan solo con contrato civil], expresando asì su intenciòn de ligarse establemente (Bernard Haring, Shalom, Editorial Erder, Barcelona, 1981, p.106). Dicho en otras palabras: “Tales matrimonios no son concubinatos, por el hecho de que ambas partes se han ligado entre sì formalmente [a travès del matrimonio civil, con intenciòn, pues,de formar una familia, de vivir como marido y mujer durante toda su vida ]. Una de las razones màs frecuentes [de invalidez] consiste en que una de las partes estaba ya casada ya validamente con otra persona” (ivi, p.107).

Me preme ahora detallar un poco màs el argumento, repartièndolo en dos subtìtulos:

  •  los NDU y la Comuniòn Eclesial
  •  los DNU y la Comuniòn Espiritual.

LA COMUNIÒN ECLESIAL : cabe comenzar con una afirmaciòn que disipe a la raiz toda duda: los fieles DNU estàn incluidos en la comuniòn eclesial, aun con su situaciòn contradictoria, y, si se quiere, con su pecado (“¿quièn en la Iglesia es exento de pecado?”- cfr. 1 Jn1,8). Dichos en otros tèrminos: no son personas excomulgadas o afectadas por alguna suerte de entredicho.

Para entender la enorme portada de tal afirmaciòn cabe recordar, aun de forma muy resumida, que signifique ser Iglesia: una comuniòn de personas incorporadas - por el bautismo y los demàs sacramentos - a Jesùs. Esta comuniòn eclesial es al mismo tiempo invisible y visible. Su realidad invisible es substanciada por la comuniòn de cada fiel con el Padre por Cristo en el Espìritu Santo. La comuniòn eclesial visible se basa en la profesiòn de la misma fe enseñada por el Papa y los Obispos en comuniòn con èl. Estos dos aspectos estàn en òsmosis entre ellos (cfr. Congregaciòn para la Docrina de la fe, Carta a los Obisbos de la Iglesia Catòlica sobre algunos aspèctos de la Iglesia considerada como comuniòn, 1992, n. 4). Los DNU viven ambas dimensiones eclesiales (cfr. Carlo Caffarra, “Orientamenti Pastorali per le situazioni matrimoniali irregolari, in particolare per i fedeli divorziati risposati”, febrero 2000), y estàn calidamente invitados a fortalecerlas a travès de la caridad, la educaciòn religiosa de sus hijos, la oraciòn, la meditaciòn de la Palabra, los retiros espirituales, la participaciòn a la misa, la Comuniòn Espìritual.

Como posible meta de este camino gradual de crecimiento, la Iglesia propone - cuando y si los fieles DNU se sientan preparados y/o dispuestos - la cesaciòn de la relaciòn. Si esto no fuere posible por la presencia de los hijos (en este caso prima la preservaciòn de los hijos, a los que no se les puede privar de su propios padres), se propone la cesaciòn de la “affectio coniugalis”, o sea: la interrupciòn de los actos matrimoniales y el progresivo incremento de la relaciòn afectuosa, de recìproca estima y de ayuda recìproca entre ellos dos: “En esto consiste el significado profundo de: vivir como hermanos” (ib).

La presentaciòn de esta perspectiva de vida podrìa aparecer, a primera vista: àrida, poco humana, y en definitiva... irrealizable. No es asì. No cabe duda de que se trata de una soluciòn dificultosa; pero son muchos los fieles DNU que la han cocretado, logrando un sinnumero de beneficios humanos/ espìrituales y recuperando el gozo de ser readmitidos a los sacramentos de la reconciliaciòn y de la Eucaristìa. La potente ayuda de Dios nunca falta, hacièndonos descubrir que: “Todo lo [podemos] en Aquel que [nos] fortalece” (Flp 4,13).

Cabe destacar

LA COMUNIÒN EUCARÌSTICA: segùn el Magisterio, los DNU catòlicos viven una situaciòn que a nivel teològico/mìstico/sacramental, contradice la comuniòn esponsal Cristo/Iglesia, significada en la Eucaristìa y en el sacramento del Matrimonio; y en segunda instancia (viven) una situaciòn de pecado. En esta razòn – y no en una disposiciòn punitiva de la Iglesia – radica la imposibilidad de recibir la Eucaristìa.

A este punto cabe recalcar que una pastoral honesta, adulta y completa, tiene el deber de explicarles (a los DNU) que existen otras situacione que contradicen la Comuniòn Eucarìstica (cfr. Caffarra, cit.) ; pienso, por ejemplo, a los catòlicos que faltan habitual y gravemente a la caridad y a los derechos humanos; a los Obispos, Presbìteros, Religiosos (y personas formalmente casadas) que viven la infidelidad, la falta de caridad y la mala gestiòn economica como pràxis abitual; a los cristianos que practican la injusticia social, estafas, corrucpciòn laboral, econòmica, polìtica, abuso de poder, ... (cfr. 1 Jn 2,4).

Va dicho claramente que una pareja de fieles DNU que se aman, que aman y crian con amor responsable a sus proprios hijos, y que se abstienen de comulgar por respeto a las normas de su fe... vive màs coherencia que aquellos cristianos que se acercan al Cuerpo del Señor con el corazòn inchado por tanta basura recièn mencionada (cfr. 1 Cor 11,27-28).

Màs veces he podido tocar con mano cuan dolorosa es, para los fieles DNU, la privaciòn de la Eucaristia. Y cuanto nos resulte dificil a los Pastores dar a entender que no se trata de un “no quiero”, sino de un “no puedo” sussurrado con amabilidad y humildad en seno a una Iglesia que es depositaria de un Mensaje (La Palabra de Dios) màs grande que ella y que no le pertenece.

Pero: ¿debe ser la causa por la cual antas hermanas y hermanos DNU sufran la separaciòn de Dios? ¡De ninguna manera!

La pregunta de fondo, para los fieles DNU, debe ser la siguiente y en esa deben concentrar todos sus anhelos: ¿cuàl el deseo de Dios para nosotros en el ahora (en lo inmediato) de nuestra relaciòn? La respuesta va a ser bellisima, plenamente gratificante, llena de paz: estar con nosotros. ¡Esto es lo que Dios quiere, ahora, en nosotros, pese a nuestra situaciòn. La identidad misma de Dios, en la Biblia, se identifica con su mismo deseo de revelarse-relacionarse-estar-caminar con nosotros!

Nuestra misma irregularidad puede tranformarse en el Horeb donde Dios quiere darnos a conocer su amor (cfr. Ex 3,1-8). en el Horeb Dios nos dio a conocer su nombre (en la mentalidad bìblica indica: la identidad y la misiòn de quien lo lleve): Yahvè (aquel que està conmigo, a mi lado, qu me acompaña con cariño, que se me quiere manifestar).

Desde esta perspectiva la Comuniòn Espiritual (aconsejada a los fieles DNU) adquiere un significado sòlido, simbòlico, y por eso real y eficaz, porque pone en acto el encuentro de dos deseos: el de Dios y ardiente sed de mi (cfr. Jn 19, 28) y el mio hacia Èl, igualmete sincero y fuerte (el deseo es la energìa màs potente que tenemos). La convergencia de los dos anhelos genera una rebosante comuniòn de amor .

La Comuniòn espiritual nos habla de un maravilloso... “ vicio divino ”: cuando el Amado (Jesùs) no pueda pasar por la puerta, no dudarà un instante en introducirse por la ventana, o por el techo o por donde fuere para alcanzar a su Amada (nosotros); porque nada ni nadie podrà separarle de ella:

¿Quièn nos separarà del amor de Cristo? [nada] podrà separarnos del amor de Dios manifestado en Cristo Jesùs, Señor nuestro” (Rom 8,35.38-39).

EPÌLOGO.

Me doy cuenta de como no sea fàcil dar respuestas que satisfagan las variegadas sensibilidades entorno a tan delicado y polièdrico argumento. Pero màs que en las respuestas – reitero – el desafìo estriba en actitudes propedèuticas como: el ofrecimiento de espacios de aceptaciòn no juzgante, un clima de fraternidad normal (no forzada) y de dialogo; todas actitudes aptas a suportar un itinerario pastoral adulto y - no està de màs añadirlo - eficaz .

Esto – a mi parecer - el gran desafio de las comunidades cristianas hacia los fieles divorciado.

Hablamos de itinerarios densos de realismo: non rebocados por una piedad allanadora; que no esquiven los baches y que no se deslizen hacia actitudes simplistas con respecto a una situaciòn que de simple tiene casi nada.

¿Se puede? Si, se puede. Lo atestigua el Espìritu de Jesùs, fuente de esa muy genuina y autentica epikeya (virtud muy frecuente en el Evangelio) que sopla a nuestro favor : “He venido para que tengan vida, y para que la tengan en abundancia” (Jn 10,10).

                                                                                  (hermano Ignacio Cùncu Pìàno hm). 20/10/2013




martedì 15 aprile 2014

LA NAZIONE... VENETA

Giorni fa, ha fatto cronaca l'arresto di un gruppo di persone pronte all'assalto - con tanto di carrarmatino fai da te! - al fine di ottenere l'indipendenza veneta. Non so quanto ci sia di  reale e di gonfiato sulla vicenda.

Devo confessare che quell'artigianale carrarmatino secessionista (una ruspa corazzata), così pericoloso da far tremare chissà chi, mi ha destato certo sorriso! Peccato: a saperlo prima, avrei messo a disposizione la vecchia motozappa di mio nonno: con un po' di miscela, quattro latte mimetiche e un tubo di ghisa (a mo' di cannoncino), avrebbe fatto il suo figurone, apportando manforte alla causa!

Scherzi a parte: in verità il mio sorriso non è rivolto alla ruspetta, ma alle solenni stupidaggini innalzate attorno ad essa, che la vogliono addirittura emblema di... violente derive popolari!

Peccato che il solido Governo Italiano, capace di sgominare con alta determinazione tanto po' po' d'insurrezione, non sia altrettanto risoluto nel prevenire e neutralizzare gli orchestranti (quelli che non scendono in piazza) di guerriglie (leggasi: violente derive popolari) coi loro mini-eserciti, che puntualmente insidiano pacifiche manifestazioni di onesti cittadini, trasformando vie, piazze e negozi della Capitale (e non solo) in luoghi di battaglia e di macerie!

Chissà perché: pare che certe violenze sembrino addirittura tollerate. Mah! Intrigante mistero!

Sia chiaro che ogni artefatto a scopo offensivo, fosse anche un sasso acuminato, debba essere inibito dagli organismi preposti all'incolumità dei cittadini: ci mancherebbe altro! Ad ogni modo credo che l'antitalica ruspetta non sia più colpevole di altre insane iniziative, che le persistenti Ragioni di Stato mettono in atto nel suolo tricolore, quasi sempre a nostra insaputa.

Eppoi, mantenendo analogie: quante le vesti stracciate contro i più aggressivi cuginastri della frustrata ruspetta?! Mi riferisco ai corazzati bulldozer israeliani (marca Caterpillar) che schiacciano cose, case e qualche volta... persone!

Per non parlare delle  armi sparate - in casa italiana -  in odor di affari, che avvelenano le comunità attigue a poligoni di tiro e a basi militari. E che dire di altri esperimenti eseguiti sulla nostre carne da cavia (scie chimiche e porcate varie)?! Il tutto schermato da solenni segreti di Stato (ipocriti eufemismi, spesso varati in antinomia coi diritti umani), spesso avallati da decreti fatti alla chetichella dai nostri Governi-fantoccio. Se poi entrassimo nel campo dei soprusi fiscali, dei debiti non pagati (dallo Stato che combatte l'evasione...) ai privati ... !! 

E siamo solo alla punta dell'iceberg di una lunga serie di abusate azioni di Stato consumate sottobanco.

A scanso di equivoci: non sto giustificando una violenza con altre; ne' intendo sminuire la gravità dell'accaduto, se attinente alle notizie riportate. L'aggressiva ruspetta veneta è pur sempre simbolo di una forma del tutto deleteria, non civile, obsoleta, decisamente non consona all'ottenimento di un fine così nobile come l'autodeterminazione, la quale dà ragione di se' solo se perseguita con gli strumenti della democrazia, quindi nella rigorosa non violenza attiva.

Non violenza quindi democrazia: unica piattaforma sulla quale un argomento così profondo e delicato (la secessione) può esser trattato in modo legittimo. Soltanto su tale premessa potrei dichiarare di  non aver problema alcuno nell'avallare le decisioni del Popolo veneto, qualora l'anelo a maggiore o totale indipendenza fosse il frutto dei pacifici consensi di una rilevante maggioranza.

Ma: quali i motivi legittimanti l'orientamento di un popolo verso l'autodeterminazione? Per me la risposta è semplice: tutti quelli che quel popolo ritenga giusti, importanti, utili, per se stesso e – dettaglio non irrilevante – per gli altri (parliamo quindi di scelte non lesive della dignità umana, prive di soggiacenze nazionalistiche e robe affini).

Non conosco a fondo l'humus dei Veneti; perciò non saprei dire se l'orientamento verso un'eventuale secessione poggi su basi identitarie di spessore storico-culturale o sul semplice anelo ad un'economia sbrigliata dai pesanti gravami dello Stato Italiano. Non saprei nemmeno dire quanti siano i cittadini veneti che pensino seriamente ad una transizione del genere (leggo in qualche parte: forse metà della popolazione; come qua e là apprendo circa un numero importante di imprenditori che non disdegnerebbe simile opzione).

Supponendo che l'economia sia la ragione fondante: potrebbe, da sola, giustificare una decisione di tale portata? Personalmente credo di sì. Perché l'economia non è solo questione di dare e avere, o di profitto: è parte integrante dell'identità di un popolo; ne manifesta, in un certo senso, il modo di essere; è strettamente legata allo stile di vita, alle tradizioni, alla cultura del lavoro, al godimento della vita, alla festa... all'assetto esistenziale che quel popolo voglia darsi.

In tal senso credo che le Genti venete portino in se' una più che corposa identità, in virtù della quale non stenterebbero a tessere una reale-funzionante personalità nazionale, o quantomeno: una realtà politica di marcata anatomia autonoma.

Spesso, quando è una Regione ricca a volersi separare, quel gesto viene letto come un desiderio di chiudersi nel godimento del proprio benessere, senza ingerenze di sorta. È una reale possibilità. Chiaro: fondare un edificio nazionale sulle basi di una gestione egocentrica delle risorse (dico egocentrica, da non confondere con autonoma), si rivelerebbe, alla lunga, una premessa dai piedi di sabbia, non umanizzante. Tagliare radici al rapporto vitale-solidale-collaborativo con e verso gli altri popoli, equivarrebbe a recidere il ceppo portante della stessa vita-identità umana, poggiata su un'intrinseca realzionalità (unica dimensione capace di farci crescere).

Non credo però sia il caso dei Veneti: non secondi a nessuno in quanto a generosità.

Tuttavia, aspirare ad una gestione autonoma, e - perché no? - ad un godimento più proprio* dell'economia prodotta con onesta efficienza, non è un'aspirazione illegittima, ma un diritto. Far passare un diritto per egoismo, equivarrebbe a sprezzare la verità e gli stessi diritti umani.

Non è egoista la scelta di quel popolo che vuol sganciarsi da soffocanti istanze fiscali rispondenti a intricate, controproducenti e sperperanti burocrazie; che vuol sganciarsi dal peso di una politica che succhia troppo e dà troppo poco; che vuol sganciarsi dagli egemonici giochi bancari; che vuol sganciarsi da un Governo che in piena crisi ha la sfacciataggine di condonare 98 miliardi a chi fomenta la patologia del gioco d'azzardo; che vuol sganciarsi dall'esosità di certe spese ambigue (dettate da Ragion di Stato), che mai verranno ridotte significativamente!

Non è egoista la scelta di quel popolo che voglia svincolarsi da cotanti-umilianti (e immorali) servaggi, per dipingere la propria esistenza in maniera più semplice, più umana, più variopinta, più soddisfacente, più altruista, più conforme a se stesso.

Non è egoista quel popolo che scelga di non più alimentare i satolli ventri dei burocrati di Stato, semplicemente perché sente il dovere morale di orientare il proprio altruismo (i profitti del proprio sudore) nel modo più confacente, mirando a realtà umane veramente necessitate: dentro e fuori casa.

Non è egoista la scelta di quel popolo che, quand'anche fosse unito in buoni vincoli ad un'Entità nazionale mediamente sana e vantaggiosa, decida di dar vita ad un percorso proprio, autonomo, semplicemente per aver maturato motivazioni fondanti tale percorso.

Quanto affermato reca in se' una non secondaria conclusione: il processo autodeterminante di un popolo, se genuinamente tale, ridonda sempre in arricchimento (umano, culturale, democratico, politico, economico) degli altri popoli della terra (inclusa la stessa Nazione da cui ci si separa). Perché? Perché fa da stimolo al buon uso della libertà, che è tale solo quando un popolo può esprimere se stesso in pienezza, senza vincoli esterni. Quando ciò accade: ci si arricchisce e si arricchisce, in tutti i sensi. Quando accade il contrario: l'umanità tutta decresce, s'impoverisce in tutti i sensi.

Non sono quindi i processi omologanti che danno vita, colore, armonia e vera fratellanza all'umanità (con buona pace di quei sedicenti politici, intellettuali ed economisti che persistono - causando non pochi danni -  in tale prassi). La storia ce lo ha mostrato più volte: le omologazioni forzate, supportate dai metodi assolutisti che in passato costruirono certe nazioni, causarono lo sterminio (culturale-fisico) di molte minoranze (a volte di... maggioranze), ricche di culture oggi disciolte.

Ma il passato è passato, lo sappiamo, e va contestualizzato. Piangerlo col senno del poi, coi parametri attuali, non avrebbe senso e non sortirebbe efficacia alcuna (anche se, a onor del vero, voci profetiche - di solito isolate e silenziate -  mai mancarono, in ogni epoca).

Nostro dovere, oggi, è cercare di rimettere le cose al proprio posto nel modo più consono, con tanta buona volontà e senso estetico! Come? Non certo mandando indietro la pellicola, ma creando nuove sintesi che sappiano riscattare ed integrare, attraverso un processo creativo e arricchito dall'oggi, quel limo culturale del passato capace di dare humus alla vita presente.  In questo modo si preserva la tradizione di un popolo: uno scaffale colmo di sapienza inestimabile, parte immancabile nella biblioteca dell'Umanità.

Oggi, alcune minoranze etniche sono riuscite a superare i preteriti stupri identitari, trovando sintonia con la nazione d'appartenenza, senza dover rinunciare alla propria specificità culturale-linguistica-economica. Altre non ce l'hanno fatta, riducendosi a umilianti sottomissioni culturali. Altre ancora, come già sopra, pur avendo trovato sintonia, rispetto e benessere nella nazione d'appartenenza, stanno ritenendo opportuno, per motivi propri, di dar vita ad un percorso altro.

Come cittadini di un presente basato sui processi democratici, abbiamo il dovere di rispettare quelle comunità che protendono verso il riapproprio di ciò di cui vennero private in un "passato che appartiene al passato". È la vita stessa, la sua naturale protensione alla superazione, che lo richiede.

                                                                                                Ignazio Cuncu Piano


* Si include il godimento che deriva dal gestire l'altruismo con criteri propri, mettendo la propria economia a servizio di chi ne abbia bisogno, per favorirne la crescita in dignità

venerdì 28 marzo 2014

LA BELLEZZA DI... SARDEX

Ci ho messo un po' a decidermi sul titolo. Avevo pensato a (titoli quali): “Il successo del metodo economico Sardex; la scelta vincente del metodo Sardex; il profitto di Sardex; i vantaggi di Sardex; la convenienza economica di Sardex”. Ha prevalso il termine "bellezza"; a prima vista poco aderente ad un argomento dal sapore monetario. Si potrebbe infatti obiettare che una riflessione di tale indole gradirebbe sostantivi quali: “vantaggio, convenienza, concorrenza, profitto”.

Non sono d'accordo. L'economia non è solo “dare e avere”; è innanzitutto una questione di estetica1.

La vita, si sa, è fondata sull'Estetica e in Essa è contenuta. Servire l'estetica, la bellezza, la bontà quindi l'utilità (ovvero: quel dinamismo che permettere ad ogni uomo e donna, di poter godere abbondantemente dell'estetica della vita), è fondamentale missione dell'arte di amministrare la casa.

La peggior tragedia dell'umanità, oggi, trova le sue radici - guarda caso - proprio nella scissione tra: bellezza, bontà e utilità. Principale artefice ne è stato il vorace sistema economico occidentale. Il pensiero filosofico che ha supportato i principi della Rivoluzione Industriale e dell'economia Capitalista-Liberista (d'ora in poi: CL), ci ha sospinti - con esito! - verso una visione disconnessa e contrapposta di questi imprescindibili ed osmotici piedistalli dell'esistere. I drammatici risultati della micidiale manipolazione sono sotto i nostri occhi e... sopra le nostre vite!

Quando bellezza, bontà e utilità sono separate e contrapposte, la vita viene sopraffatta e annientata. Si tratta di un assioma che non ammette eccezioni... nemmeno in economia.

Quest'inscindibile trilogia (per me, credente, fruite dalla stessa vita-dallo stesso Autore), porta ad una triste conclusione circa l'economia imperante: il CL (col suo incontrollabile delirio di “denaro per il denaro ad ogni costo”) è intrinsecamente non-umano. Per far coerenza coi propri principi, necessita infatti contrapporre: bontà, bellezza, utilità. Se ne desume che esso contenga nel proprio DNA la neccessità dell'esclusione e dell'affossamento di gran parte della popolazione.

Detto in altri termini: non esiste un CL onesto, buono. E nemmeno utile, visto che il concetto di utilità universale è l'unico che sappia mettere in essere ad un'economia che si consideri tale.

Sia chiaro che non ce l'ho col capitale2 in se', ma con l'uso (accumulativo ed escludente) che ne fa il Sistema imperante.

La crisi dell'economia, oggi, è sostanzialmente la crisi di un CL che si sta avviluppando in se stesso: una tigre ferita a morte che corre all'impazzata calpestando ciò che incontra; che prima di trarre l'ultimo respiro emana i più terrificanti ruggiti; che s'illude di salvarsi uccidendo chi gli sta intorno.

Si tratta di un'evidenza alla portata di tutti; il resto è retorica scritta su cartastraccia. Anche la Politica lo sa; ma stenta ad ammetterlo, ridotta com'è a mendicare l'annuenza della Tigre“ per poter fare ciò che vorrebbe” (cf. Zygmunt Bauman, Quel futuro conteso da mercati e Stati-nazione, La Repubbica, 08/06/2012). E così vaga nel vago, fingendo di risolvere i problemi della gente, ma in realtà costretta al meschino gioco del Re Nudo, per timore che “La Tigre” la punisca con ferocia.

Ma non siamo al crepuscolo. Tutt'altro. In mezzo a luci che si spengono e volgono a notte, ce ne sono altre che si accendono e che pian piano fanno nuovo giorno. Si tratta di luci disseminate nell'Umanità, ancora molto anonime ma efficaci, in gran parte scalzate dai media fagocitati dalla... Tigre. Si tratta di germogli che crescono - silenziosi ma in piena linfa – nel sottobosco dell'ombrosa giungla in decomposizione dell'attuale sistema.

Mi riferisco alle numerose iniziative che - forse inconsciamente - stanno restituendo connotazioni proprie al volto dell'economica. Iniziative rivoluzionarie, sostenute da un'efficace inte-ligenza monetaria, iniziative che paradossalmente - o no? - sorgono in ambiti umani caratterizzati da estremo disagio economico; iniziative che stanno ridando dignità ad intere famiglie sferzate da povertà e miseria; iniziative che fanno giustizia alla semantica del bistrattato termine “crisi” , brandito da molti soltanto a mo' di mero spauracchio (crisi, dal greco krino: separare il grano dalla pula, discernimento, scelte nuove, soluzioni nuove, esito).

Fra queste (iniziative), mi piace citare il sistema economico Sardex (d'ora in poi: Sx). Forse denominare “sistema economico” quest'efficace microcredito sorto (nel 2006?) dall'iniziativa di quattro giovani sardi (Giuseppe e Gabriele Littera, Carlo Mancosu e Piero Sanna) a qualcuno potrebbe sembrare eccessivo. Mah! Non vedo perché un progetto capace di risollevare - oltre che economia locale e lavoro – l'autostima e la dignità di tante persone, debba essere ghettizzato con appellativi altri e minimizzanti!

Abituati come siamo a considerare il peggio come fosse il meglio pur sapendo che non lo è, può farci buon gioco concentrare l'attenzione sul “rovescio del rovescio”, a mo' di saggi cercatori di rare perle, piccole ma preziose, coltivate in mezzo ad inutili ferrivecchi cromati. Forse ci accorgeremmo che sistemi economici quali Sx, l'Economia di Comunione, la Grameen Bank, i 17 circuiti di moneta complementare del Belgio, la sterlina ecologica di Brixton, la Banca Wir (la moneta alternativa svizzera fondata negli anni '30 a cui s'ispirarono gli ideatori di Sx) et alii... , mettono in luce, per contrappasso, tutta l'anima antieconomica (non utile) del CL.

Ma torniamo a Sx. Certo non saprei spiegare tutti i dettagli tecnici di questa banca senza interessi (un assortito di servizi e moneta virtuale interscambiati fra gli utenti), ma ne vedo i buoni frutti (“dal frutto si riconosce l'albero”, disse una volta un Tizio – cf. vangelo secondo Luca 6,43-44). Per frutti intendo le più di 600 imprese isolane in felice ripresa. Imprese fino a poco fa vocate al declino, asfissiate dal peso della crisi indotta e dai perversi meccanismi bancari, possono ora respirare attraverso i polmoni di un sistema economico dall'apparenza - ma è solo apparenza! - naif.

Col sistema Sx: “A parte benzina, farmaci ed energia elettrica, [si può] comprare tutto, sia beni che servizi. E quindi alberghi, dentisti, falegnami, elettricisti, meccanici, consulenti di marketing, sale congressi, corsi di lingua inglese, pubblicità sui giornali locali, vestiti, mobili, ristoranti e persino la connessione internet. Oltre al cibo, vino e carni, tutto rigorosamente sardo” (Riccardo Luna, Vivere bene senza denaro, La Repubblica, 23/01/2012).

Il sistema Sx è del tutto legale; non scalza l'euro (anzi: lo umanizza, ergo lo valorizza), che viene utilizzato sia per pagare le tasse, che per le transazioni esulanti o non previste (dal sistema Sx).

Ambiti internazionali (e, m'immagino, anche gli scagnozzi della Tigre) osservano con attenzione la positiva esperienza economica sarda.

Sx è un sistema economico che mette al centro la persona e la sua dignità. Come? Attraverso il metodo dell'eticità, della fiducia, della solidarietà: valori insiti al... camminare e crescere insieme. Strano no? Eppure questi treppiedi della convivenza umana, fanno la base identitaria di ogni economia. Il sistema  prevede che: “Per andar bene io, devono andar bene gli altri”. È anche per questo motivo che quando un'impresa della rete Sx vacilla, le altre intervengono in suo sostegno; con buona pace di chi sostiene che l'eticità e la solidarietà non si possono mangiare (cf papa Francesco, Evangelii Gaudium, 57)!

La coerenza di Sx si evince anche da scelte che escludono interazioni con entità finanziarie di altro tenore etico, e con industrie impegnate nella fabbricazione di armi. Superfluo spiegarne i perché.

Ma a mio avviso il valore aggiunto di Sx, va ben oltre il semplice fatto economico; va oltre lo stesso Sx. attraverso questo sistema si sta promuovendo un nuovo stile di vita, una nuova metrica nel rapporto economia-vita. Per me, credente, Sx, in un certo senso, mette in prassi il principio cristiano (che è pure patrimonio di società tribali per fortuna non ancora... civilizzate) della Comunione dei Beni : “Chi aveva proprietà […] ne faceva parte [agli altri],secondo i bisogni di ciascuno”(Atti degli Apostoli 2,45). La gestazione di questo nuovo stile di vita , se coscientemente assimilato quindi impresso negli animi, potrebbe evolversi e ridondare in un sano contagio verso l'economia più "macro",  anche nella non auspicata eventualità che il sistema Sx venisse a decadere.

Non so se ho esagerato in apprezzamenti. Forse no!

È molto probabile che i fondatori di Sx non s'intronfino per tanto buon esito, considerandosi  normali cittadini a servizio dei cittadini. E vada bene così! Ma noi, noi che osserviamo dal di fuori, siamo invitati (dal buon senso esistenziale) a ringraziare e riflettere circa la bellezza, la bontà e l'utilità di questo metodo. È quasi (o senza quasi) un dovere. Soprattutto lo è per noi Sardi: ci stiamo rendendo conto di questo ed altri coloriti fiori che ci germogliano in casa?  Tutte iniziative - bada bene! -  portate avanti con quotidiana positività, con impegno reale, senza fatesche bacchette magiche.

L'ordinaria straordinarietà di Sx sta rimettendo in essere un dinamico assioma sociale caratterizzante le primitive genti sarde (e, in fin dei conti: tutte le società primitive del bacino del mediterraneo e non solo), ove l'essere persona singola è in simultanea-vitale relazione con il gruppo di appartenenza (essere, equivaleva ad "essere-con gli-altri, anche in ambito economico).

L'ordinaria straordinarietà di Sx, riafferma a mio avviso una costante nella lunga e articolata storia dell'Isola: povertà e miseria - contrariamente al pensare comune -  sono state, in genere, conseguenze di meccanismi economici imposti da oltremare. Meccanismi perversi o semplicemente a noi non consoni, che quasi sempre hanno scalzato autoctone abitudini (economiche) dignitose ed efficaci 3.

L'ordinaria straordinarietà di Sx, quindi, non è l'eccezione che conferma la regola circa un Popolo affetto da “ancestrale-granitico immobilismo” (idiota, quanto falso e nefasto luogo comune!), ma l'ennesima dimostrazione della nostra “inconsapevole capacità creativa”. Sì, inconsapevole e sminuita (da noi stessi, s'intende). È questo il nostro peggior difetto. Prendiamone atto per favore e... buttiamolo a mare con gioiosa determinazione! Ci farà tanto bene.  Sardex docet!

                                                                                                                      Ignazio Cuncu Piano.


1  Estetica intesa come: capacità di contemplare (cogliere in profondità, guardare con positività) ed accrescere la bellezza di ogni uomo e donna, del cosmo e della vita tutta;

2  altro esempio di capitale umanizzato è la “Economia di Comunione”. Sorta nel 1991 in Brasile (dall'intuizione di Chiara, Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari), ha fatto del capitale il propulsore di un'adeguata retribuzione agli operai, dell'incremento dei posti di lavoro e dell'aiuto a famiglie e persone in necessità. Ad oggi si contano oltre 850 imprese (più altre 100 in empatia) dentro le quali si respira un nuovo stile impresariale, fatto di solidarietà, di valorizzazione della creatività di ognuno e di abbondante soddisfazione dei legittimi bisogni (personali e familiari) degli operai e delle operaie;
 
3  la Sardegna, prima dell'imposizione delle nefaste leggi economiche sabaude, è caratterizzata da un'economia (autoctona e funzionante) che antepone il bene della comunità al profitto privato (cf. Omar Onnis, Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Arkadia Editore, 2013, pp. 16.73.107).