Qualche anno fa
chiesero a papa Benedetto
quale fosse il centro
della Chiesa. La risposta del Pontefice
eluse la sottile
insidia che quella domanda - forse - celava: “Il
centro della Chiesa si trova laddove risiede ogni cristiana/o”.
Questa semplice e geniale affermazione, racchiude la visione
essenziale dell'ecclesiologia cattolica: Chiesa
è ogni cristiano/a battezzato/a, facente parte il Corpo Mistico di
Gesù. Non
esiste quindi un ipotetico centro ecclesiale insignito di maggiore
importanza. Non è più Chiesa-Corpo (di Cristo) una comunità di
fedeli riunita in Piazza san Pietro attorno al Papa, di quanto non lo
sia una comunità (di cattolici) riunita in un anonimo villaggio del
Medio o Estremo Oriente, dell'Africa, dell'America Latina o
dell'Oceania.
Anche al di fuori della Chiesa l'amore di Dio non fa differenze. Per
Lui non esiste un'Umanità periferica e una centrale. Periferia,
centro, serie A e serie B sono categorie
create da noi. Categorie non sane, quindi sconosciute a Dio, per il
quale ogni uomo è “centro della Sua attenzione”. Addirittura la
Bibbia ci autorizza a sostenere che la Sua misericordia,
paradossalmente, mette ancor “più” al centro chi dagli
altri uomini è messo “più” da parte!
Quando papa Francesco parla delle periferie,
quindi, non si riferisce a quelle secondo
Dio (già visto il perché), ma alle periferie segnate dalla metrica
umana, tarata spesso su parametri altri da quelli di Dio (cfr. Isaia
55,8).
Il Papa conosce bene questo tipo di demarcazione perversa, perché
porta con se' l'esperienza delle metropoli latinoamericane, le
cui periferie ( e non solo) sono in gran parte configurate dalla
presenza delle bidonville: catapecchie irregolari che
rompono la spettacolare architettura dei moderni grattacieli che
spesso le fanno da sfondo.
Quelle periferie sono il frutto, in un certo senso, della resistenza
del “centro”, che spesso non può o non vuole assimilare ai
propri sistemi di benessere quelle marginali categorie
umane.
Ed ecco che la periferia, il più delle volte, diventa zona d'ombra,
contenitore di “persone superflue”
(Z. Bauman) lì parcheggiate, per essere
usate, al momento opportuno, ai fini utilitaristici del centro.
Quando si parla di centro, di solito si allude ad un ambito
geografico ideale, in cui si possano realizzare le proprie
aspirazioni, sentirsi importanti, appagati, assistiti da servizi
efficienti, culturalmente all'altezza del mondo che conta. Un luogo
dove la speranza parrebbe operativa, dove gli altri dovrebbero
accorgersi che tu esisti e vali (!).
Periferia significherebbe l'opposto: il vivere velato da una patina
di frustrazione, di perenne incompletezza; lo specifico proprio
(cultura, lingua) considerato come incentivo di arretratezza.
Ma è proprio così? Eppoi: è così vero che le periferie non
abbiano altre strade da percorrere se non quelle verso un ingresso
forzoso nei cantri già esistenti? Un'epidermica lettura della realtà
verterebbe verso un remissivo “sì”. Ma la verità di fondo per
fortuna è altra: la periferia è un'artificiale eredità degli
interessi del centro. Perché la periferia, in se stessa... non
esiste.
Un artificio che il centro sostenne e sostiene per assicurarsi dei
maggiordomi ai suoi servigi: “Tu sei periferia perché mi servi
così!”. Un'artificiosa sottomissione mentale, quindi
culturale, linguistica, sociale ed economica, sedimentata a tal punto
da non farci accorgere che si tratta, forse, del più perverso - e
dannoso! - pregiudizio esistente “tra i Popoli”. Un
pregiudizio (quindi realtà fittizia) che
impoverisce drammaticamente tutti, centro compreso.
Viste sotto questa luce, le visite del Pontefice al carcere,
Lampedusa e Cagliari, non rispondono a un itinerario dagli esordi
periferici: tutt'altro! Asseriscono una semplice verità: quei
siti sono
centro a se stessi, fulcri di vitalità propria, realtà umane non
seconde a nessuno.
Un carcere è centro e se stesso, nel bene e nel male: è
città, è popolo, ricco di enorme potenzialità umane. E per quanto
strano possa sembrare, è centro di speranza, come dimostrano
tante esperienze poco diffuse dai media. Una realtà verso la quale
- quelli fuori - siamo collocati in una comprensione del tutto
periferica (chi conosce il carcere dal di dentro sa capirmi).
Gli abitanti di Lampedusa sono protagonisti di una vicenda umana che
gli conferisce, pur tra laceranti difficoltà, una dignità unica,
centrale! La paziente generosità verso gli sbarchi, la pietà
per i naufragi, la tramutazione del loro suolo in approdo di
iniziale speranza per molti miseri, è ormai parte del DNA di questa
Popolazione. Non gode di altrettanta ricchezza umana chi, dai
presunti “centri” di potere, si rende “periferico”
al dramma che si celebra nell'Isola!
Le Genti sarde godono di un bacino culturale autoctono tutto da
scoprire, che ha arricchito e a sua volta si è arricchito dalle
numerose civiltà di cui l'Isola fu, per millenni, punto di
confluenza (centro). Una cultura abbinata a privilegi
geografici, al sole e al vento fecondi di esuberante energia, alla
disponibilità di un suolo fertile di tutto; quanto humus per
coltivare una convivenza felice, di giusto benessere, retta da rigore
ecologico, colma di dignitosa originalità!
La realtà magnifica, la “perla” che si cela nelle varie
geografie umane, è proprio questa: ogni uomo, ogni comunità, ogni
Popolo è centro a se stesso; realtà con personalità e dinamismo
proprio. È tale ritorno al centro
sanamente inteso (niente a che vedere con egocentrismi, narcisismi o
sciovinismi di sorta alcuna) che genera altrettanti sani criteri di
relazione con gli altri “centri”, ai quali si dà e dai si quali
riceve, senza ibridare la personalità propria. Ciò che rende le
periferie marginali e frustrate è infatti il rinnegamento di se'
stessi, coll'illusione di poter accelerare il ritmo di emancipazione camuffandosi all'interno di altri modelli culturali. L'unico risultato di tale tentativo? Analfabetismo etnico. È quanto colgono i Vescovi catalani quando affermano che: “Il nostro Popolo [e ogni Popolo]
ha verificato che se abbandona la propria identità culturale, perde
il nesso con la cultura umana […] L'universalismo non è mai stato
interpretato in Catalogna come un processo riduzionista di sudditanza
a una cultura egemone, ma come rinvigorimento di ogni cultura e come
contributo responsabile a servizio dell'uomo” (Episcopato
catalano, Radici cristiane della Catalogna, 1986).
Operare un processo di ritorno “al centro di
se stessi” – da parte di ogni persona
e Popolo - è l'obiettivo dell'autentica speranza,
è diritto e dovere verso se stessi e verso gli altri.
Ma come diventare centro a se stessi? Volendolo;
dunque mettendo in atto un
graduale cambiamento di mentalità. Perché
essere centro o periferia, l'abbiamo visto, è in primo luogo una
questione mentale. E le risorse? Devono sorgere dal cuore della
stessa periferia, ché, come visto, periferia non è. Gli aiuti
esterni son certo utili, ma solo se funzionali al percorso in tema.
Ottimizzare l'interazione con i Popoli in tal senso rispettosi e
stimolanti, è cosa più che buona.
Una tentazione altamente devastante per le periferie, consiste nello
stagnare in una lamentosa- piagnucolante passività, con la speranza
che il centro, commosso, vada in suo soccorso. È
una pia illusione radicata in quella stessa dipendenza mentale che la
storia ha sedimentato nel cervello delle periferie. Solo un processo
come sopra espresso potrà tramutare in “centro” la falsa
percezione che i Popoli “periferici” hanno di se stessi. Il resto
viene da se'.
È possibile tutto ciò in un mondo ove i pochi
sedicenti Centri soggiogano le molte Periferie? Sì. Alcuni Popoli
l'hanno già fatto, altri sono a buon punto; altri ancora si stanno
immettendo in carreggiata. I venti contrari
saranno forti. Le resistenze degli
attuali centri non daranno tregua; ma al contempo fungeranno
da utile cartina tornasole, secondo l'aforisma del Mahatma: “Prima
ti ignorano, poi ti deridono, poi
ti combattono. Poi vinci”.
Ignazio Cuncu Piano.