sabato 26 ottobre 2013

UN'ESPLOSIONE IN VIA RASELLA

La morte di Erich Priebke, l'11 ottobre scorso, ha riaperto una ferita storica di non facile rimarginazione: l'eccidio di 335 persone nelle Fosse Ardeatine.

Conosciamo tutti il detonatore di quest'abominevole fatto. Il 23 marzo 1944, in via Rasella (Roma), un gruppo di prtigiani del GAP fece esplodere una bomba contro il Polizei-Regiment Bozen : soldati altoatesini, quindi... italiani. La reazione dei comandi tedeschi fu di una spietatezza inaudita: l'esecuzione di dieci italiani per ogni soldato ucciso. Pare che le autorità militari (tedesche) residenti in Italia, riuscirono a ridurre il massacro (nell'iniziale delirio di Hitler avrebbe dovuto avere più ampie dimensioni); tuttavia l'efferatezza della rappresaglia calpestò spudoratamente i criteri sanciti dalle Convenzioni di Guerra. D'altro canto: come stupirsi? Come non immaginare una reazione drasticamente violenta da parte di un Regime (quello Nazista) che usava la ferocia e lo sterminio come prassi abituale?

Ignoro le ragioni di fondo che spinsero i partigiani comunisti a un'azione (l'attentato) che considero un “sovrappiù di violenza” che non sortì nessun effetto, se non quello di inasprire le posizioni nemiche. Inoltre gli Alleati, cioè coloro che effettivamente liberarono l'Italia dai Nazisti, erano ormai a pochi chilometri dalla Capitale.

Come molti, anch'io mi chiedo perché quei partigiani non si siano consegnati subito - per evitare ritorsioni su altre persone - , allo stesso modo del carabiniere Salvo D'Acquisto (+23 settembre 1943) o del finanziere Vincenzo Giudice (+16 settembre 1944), i quali si addossarono colpe non loro pur di salvare vite innocenti.

I partigiani erano perfettamente al corrente dell'inevitabile rappresaglia che avrebbero scatenato. Tutti i romani ne erano al corrente. Il comando tedesco infatti, aveva affisso per tutta la città numerosi manifesti che a chiare note ammonivano sulle severe ritorsioni che sarebbero scaturite da ogni eventuale attentato.

Ma torniamo alle responsabilità non assunte: perché gli autori dell'attentato di via Rasella non si costituirono ai comandi Nazisti, per salvare le vittime della rappresaglia? Alcui anni dopo, gli stessi ex-partigiani addussero a propria difesa che quell'attentato fu un'azione di guerra. La mancata consegna al nemico rispondeva a quella logica: erano combattenti, forze di contrasto contro il nemico invasore, e il loro compito non era costituirsi, ma seguitare nella... guerra per la liberazione del popolo italiano. Precisarono inoltre che la previsione di rappresaglia (su altri) non avrebbe impedito l'attentato.

Peccato che questi “condecorati al valor militare” si siano dimenticati che il codice etico di guerra (scritto o non scritto non fa differenza) afferma che la popolazione civile debba essere difesa ad oltranza - con l'offerta della vita se necessario - da parte di coloro che presumibilmente si sono rivestiti di tale compito: come, per esempio, certi sedicenti partigiani.

Dedico questa riflessione all'adolescente Pietro Zuccheretti, dilaniato dall'esplosione di via Rasella. Lasciato in ombra dalla storia. 

                                                                                                     Ignazio Cuncu Piano.

lunedì 21 ottobre 2013

LA SPERANZA? È IL RIAPPROPRIO DEL CENTRO.

Qualche anno fa chiesero a papa Benedetto quale fosse il centro della Chiesa. La risposta del Pontefice eluse la sottile insidia che quella domanda - forse - celava: “Il centro della Chiesa si trova laddove risiede ogni cristiana/o”. Questa semplice e geniale affermazione, racchiude la visione essenziale dell'ecclesiologia cattolica: Chiesa è ogni cristiano/a battezzato/a, facente parte il Corpo Mistico di Gesù. Non esiste quindi un ipotetico centro ecclesiale insignito di maggiore importanza. Non è più Chiesa-Corpo (di Cristo) una comunità di fedeli riunita in Piazza san Pietro attorno al Papa, di quanto non lo sia una comunità (di cattolici) riunita in un anonimo villaggio del Medio o Estremo Oriente, dell'Africa, dell'America Latina o dell'Oceania.

Anche al di fuori della Chiesa l'amore di Dio non fa differenze. Per Lui non esiste un'Umanità periferica e una centrale. Periferia, centro, serie A e serie B sono categorie create da noi. Categorie non sane, quindi sconosciute a Dio, per il quale ogni uomo è “centro della Sua attenzione”. Addirittura la Bibbia ci autorizza a sostenere che la Sua misericordia, paradossalmente, mette ancor “più” al centro chi dagli altri uomini è messo “più” da parte!

Quando papa Francesco parla delle periferie, quindi, non si riferisce a quelle secondo Dio (già visto il perché), ma alle periferie segnate dalla metrica umana, tarata spesso su parametri altri da quelli di Dio (cfr. Isaia 55,8).
Il Papa conosce bene questo tipo di demarcazione perversa, perché porta con se' l'esperienza delle metropoli latinoamericane, le cui periferie ( e non solo) sono in gran parte configurate dalla presenza delle bidonville: catapecchie irregolari che rompono la spettacolare architettura dei moderni grattacieli che spesso le fanno da sfondo.

Quelle periferie sono il frutto, in un certo senso, della resistenza del “centro”, che spesso non può o non vuole assimilare ai propri sistemi di benessere quelle marginali categorie umane.
Ed ecco che la periferia, il più delle volte, diventa zona d'ombra, contenitore di “persone superflue” (Z. Bauman) lì parcheggiate, per essere usate, al momento opportuno, ai fini utilitaristici del centro.

Quando si parla di centro, di solito si allude ad un ambito geografico ideale, in cui si possano realizzare le proprie aspirazioni, sentirsi importanti, appagati, assistiti da servizi efficienti, culturalmente all'altezza del mondo che conta. Un luogo dove la speranza parrebbe operativa, dove gli altri dovrebbero accorgersi che tu esisti e vali (!).
Periferia significherebbe l'opposto: il vivere velato da una patina di frustrazione, di perenne incompletezza; lo specifico proprio (cultura, lingua) considerato come incentivo di arretratezza.

Ma è proprio così? Eppoi: è così vero che le periferie non abbiano altre strade da percorrere se non quelle verso un ingresso forzoso nei cantri già esistenti? Un'epidermica lettura della realtà verterebbe verso un remissivo “sì”. Ma la verità di fondo per fortuna è altra: la periferia è un'artificiale eredità degli interessi del centro. Perché la periferia, in se stessa... non esiste.

Un artificio che il centro sostenne e sostiene per assicurarsi dei maggiordomi ai suoi servigi: “Tu sei periferia perché mi servi così!”. Un'artificiosa sottomissione mentale, quindi culturale, linguistica, sociale ed economica, sedimentata a tal punto da non farci accorgere che si tratta, forse, del più perverso - e dannoso! - pregiudizio esistente “tra i Popoli”. Un pregiudizio (quindi realtà fittizia) che impoverisce drammaticamente tutti, centro compreso.

Viste sotto questa luce, le visite del Pontefice al carcere, Lampedusa e Cagliari, non rispondono a un itinerario dagli esordi periferici: tutt'altro! Asseriscono una semplice verità: quei siti sono centro a se stessi, fulcri di vitalità propria, realtà umane non seconde a nessuno.

Un carcere è centro e se stesso, nel bene e nel male: è città, è popolo, ricco di enorme potenzialità umane. E per quanto strano possa sembrare, è centro di speranza, come dimostrano tante esperienze poco diffuse dai media. Una realtà verso la quale - quelli fuori - siamo collocati in una comprensione del tutto periferica (chi conosce il carcere dal di dentro sa capirmi).

Gli abitanti di Lampedusa sono protagonisti di una vicenda umana che gli conferisce, pur tra laceranti difficoltà, una dignità unica, centrale! La paziente generosità verso gli sbarchi, la pietà per i naufragi, la tramutazione del loro suolo in approdo di iniziale speranza per molti miseri, è ormai parte del DNA di questa Popolazione. Non gode di altrettanta ricchezza umana chi, dai presunti “centri” di potere, si rende “periferico” al dramma che si celebra nell'Isola!

Le Genti sarde godono di un bacino culturale autoctono tutto da scoprire, che ha arricchito e a sua volta si è arricchito dalle numerose civiltà di cui l'Isola fu, per millenni, punto di confluenza (centro). Una cultura abbinata a privilegi geografici, al sole e al vento fecondi di esuberante energia, alla disponibilità di un suolo fertile di tutto; quanto humus per coltivare una convivenza felice, di giusto benessere, retta da rigore ecologico, colma di dignitosa originalità!

La realtà magnifica, la “perla” che si cela nelle varie geografie umane, è proprio questa: ogni uomo, ogni comunità, ogni Popolo è centro a se stesso; realtà con personalità e dinamismo proprio. È tale ritorno al centro sanamente inteso (niente a che vedere con egocentrismi, narcisismi o sciovinismi di sorta alcuna) che genera altrettanti sani criteri di relazione con gli altri “centri”, ai quali si dà e dai si quali riceve, senza ibridare la personalità propria. Ciò che rende le periferie marginali e frustrate è infatti il rinnegamento di se' stessi, coll'illusione di poter accelerare il ritmo di emancipazione camuffandosi all'interno di altri modelli culturali. L'unico risultato di tale tentativo? Analfabetismo etnico. È quanto colgono i Vescovi catalani quando affermano che: “Il nostro Popolo [e ogni Popolo] ha verificato che se abbandona la propria identità culturale, perde il nesso con la cultura umana […] L'universalismo non è mai stato interpretato in Catalogna come un processo riduzionista di sudditanza a una cultura egemone, ma come rinvigorimento di ogni cultura e come contributo responsabile a servizio dell'uomo” (Episcopato catalano, Radici cristiane della Catalogna, 1986).

Operare un processo di ritorno “al centro di se stessi” – da parte di ogni persona e Popolo - è l'obiettivo dell'autentica speranza, è diritto e dovere verso se stessi e verso gli altri.

Ma come diventare centro a se stessi? Volendolo; dunque mettendo in atto un graduale cambiamento di mentalità. Perché essere centro o periferia, l'abbiamo visto, è in primo luogo una questione mentale. E le risorse? Devono sorgere dal cuore della stessa periferia, ché, come visto, periferia non è. Gli aiuti esterni son certo utili, ma solo se funzionali al percorso in tema. Ottimizzare l'interazione con i Popoli in tal senso rispettosi e stimolanti, è cosa più che buona.

Una tentazione altamente devastante per le periferie, consiste nello stagnare in una lamentosa- piagnucolante passività, con la speranza che il centro, commosso, vada in suo soccorso. È una pia illusione radicata in quella stessa dipendenza mentale che la storia ha sedimentato nel cervello delle periferie. Solo un processo come sopra espresso potrà tramutare in “centro” la falsa percezione che i Popoli “periferici” hanno di se stessi. Il resto viene da se'.

È possibile tutto ciò in un mondo ove i pochi sedicenti Centri soggiogano le molte Periferie? Sì. Alcuni Popoli l'hanno già fatto, altri sono a buon punto; altri ancora si stanno immettendo in carreggiata. I venti contrari saranno forti. Le resistenze degli attuali centri non daranno tregua; ma al contempo fungeranno da utile cartina tornasole, secondo l'aforisma del Mahatma: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”.

                                                                                            Ignazio Cuncu Piano.