Natale
- anche nella percezione di molti non credenti - è la festa dei
deboli, dei diseredati, dei perdenti, oppressi dalle varie ingiurie
della vita. Natale in poche parole è la festa degli “sfortunati
dell'esistere”. La simbologia dei pastori, primi destinatari
del lieto annunzio fatto dagli angeli (cf. Lc 2,8-20) dice per
l'appunto un Natale che si fa lieta notizia per gli emarginati,
nell'ambito sociale e morale (i pastori dell'ambiente giudaico non
erano affatto avvolti dal romanticismo bucolico dei nostri variopinti
presepi. In un ecosistema socio-religioso ove le accumulate, puritane
e spesso ritorte glosse rabbiniche rendevano la fedeltà alla Legge
insostenibile per il popolino, i pastori, per la loro vita randagia,
non igienica e spesso dedita alla violenza, al furto, erano
considerati tra la peggiore feccia d'Israele. Maledetti da Dio, senza
salvezza; di certo sterminati alla venuta dell'atteso Messia
giustiziere).
Non è
mia intenzione mandare di traverso il panettone a nessuno, ma
invitarmi (e invitare) a non espropriare questa festa della sua
peculiarità più vigorosa: la speranza. E la speranza, si sa,
va offerta soprattutto a chi non ha più motivi per sperare. Fa parte
della logica dell'amore di Dio; quella logica di misericordia che pervade tutta la
Storia Sacra. Quella logica che spinge Dio stesso a nascere uomo
nella persona del figlio Gesù (quest'avvenimento - e nient'altro -
ci ricorda il Natale). In Lui Dio entra nel tessuto della storia,
nella povertà umana, svuotandosi, in un certo senso, dalle
prerogative della Sua stessa divinità (cf. Fil 2,6-8). Viene a
nascere in questo modo nella piena condivisione della normalità
umana che, per un Dio onnipotente, ha valenza di estrema povertà.
Povertà che condividerà fin nella morte - e morte infame (cf. ib
2,8; Gal 3,13) – per la salvezza di ognuno di noi.
Chi
desidera vivere questa solenne festa (il Natale) in aderente spirito
di fede (o in umana coerenza), non può escludere dalle proprie
scelte di vita la condivisione con chi è nella necessità. Ma: chi è
nella necessità? L'antropologia cattolica ci viene in aiuto: ognuno
di noi, stringi stringi, è un necessitato. Sì: siamo - poiché
umani - ontologicamente bisognosi. Non bastiamo a noi stessi. Dio ci
ha fatti così. Ma non si è posto nessun problema circa questa nostra
intrinseca limitatezza creaturale, visto che Egli stesso - e con
immenso piacere - supplisce colmando i nostri aneli più essenziali e
mai sazi ( vivere, essere amati, amare, gioire, godere...) con la sua
eterna Perfezione Amante.
Ma se
è vero che tutti siamo poveri, è pur vero che esistono - come ricordava la Madre Teresa di Calcutta - dei “poveri fra i
poveri”. Sorelle e fratelli nostri di ogni età, che per diverse
ragioni portano impresse nelle carni, nello spirito: segni, cicatrici
di povertà, di dolore, di bisogni estremi.
Ma
che c'entra tutto questo col titolo del post (l'economia dei deboli)? Tanto; forse tutto.
Se
siamo d'accordo che le povertà più sopra espresse siano una
minaccia agli essenziali aspetti dell'umano, spingendolo nel confine
dell'esistenza non umana, siamo anche d'accordo che tutto, in uno
Stato di Diritto che si dica moderno, debba concorrere – economia
inclusa – al loro superamento.
In
effetti, il “Certificato di Civiltà” di uno Stato di Diritto
trova luogo proprio nella salvaguardia delle persone, avendo le più
deboli come punto di riferimento. Deboli perché socialmente
sfavorite; deboli per salute cagionevole, per handicap; deboli perché
bambini, anziani, donne, immigrati, carcerati,...
La
costante e naturale attenzione ai più deboli, per esser tale (quindi
efficace) ha da toccare tutte le istanze della vita civile:
dall'urbanistica (penso, per esempio, a quanto sarebbe più vivibile
“per tutti” una città ideata per gli handicappati e per i
bambini) ... all'economia.
Sarebbe
a questo punto ingiusto non evidenziare gli enormi passi dati(in
alcune parti della popolazione umana) in questo senso: nel campo
medico, della legislazione sulle previdenze sociali eccetera. Ma è
altrettanto doveroso e giusto fare continua autocritica per mettere
in evidenza che soprattutto la filosofia del profitto, non sia così
naturalmente incline verso i più deboli. L'ancestrale istinto alla
legge della giungla, pur ampiamente abolito (e ne prendiamo
felicemente atto) in tanti ambiti della vita civile, è in buona
parte persistente - mimetizzato da altisonanti tecnici eufemismi -
nei modelli finanziari vigenti. Lo vediamo nella macro-economia: vera
e propria “struttura di peccato” (o, detto in termini non
cristiani: di anti-vita). Padre Ellacurìa (gesuita, assassinato a
San Salvador nel 1989) sottolineava come l'assetto finanziario del
globo così impostato sia da considerarsi una struttura di peccato
(anti-uomo) visto che per assicurare l'esuberante fatturato dei
pochi, necessita far languire i molti nella miseria. La legge del più
forte. La legge della giungla.
Ma,
un sistema economico che escluda i molti, col tempo è votato a
volgersi contro... tutti; inclusi gli stessi che in un primo momento
ne sono i ristretti beneficiari. Diventa un imbuto, nel quale, un po'
alla volta, tutti ci troviamo... strozzati. Qual'è la trappola ad
esso (il sistema) intrinseco? La voracità egoista (su
questi due aspetti, forse, tutti dovremmo fare un profondo esame di
coscienza). Voracità, egoismo. Due ingredienti capaci di far
collassare ogni progetto che voglia dirsi “umano”. Senza dubbio
l'ambito economico è dove sono più tangibili i devastanti effetti
di queste due tensioni-sorelle (voracità ed egoismo appunto) che
dimorano - sempre arzille! - in ognuno di noi. Per fortuna non sono
sole! Il nostro intimo è abitato da altri e altrettanto vivaci
abitanti (altruismo, compassione, tenerezza, desiderio di crescere e
di far crescere...) capaci di vigilare, zittire e neutralizzare (se
vogliamo) le due perniciose e mai arrendevoli coinquiline.
Io
non intendo di macro economie; me la cavo abbastanza nell'economia
della massaia (quella che, forse, più
dovrebbe essere presa in considerazione dalle macro economie). Ma
sono fermamente convinto che la base di ogni sistema economico dal
volto umano, si basi su un insindacabile assioma: la solidarietà:
l'attenzione verso i meno protetti. Come sono convinto che
un'economia di questo tipo - un economia “dal basso, che parta dai
più piccoli della terra” - sia vincente, fautrice di giusto
benessere... per tutti. Sì, dico bene: giusto benessere.
Perché ciò che sa di sproporzione non è umano e non fa bene a
nessuno: nemmeno a chi ha... sproporzionatamente.
In tempo di crisi come il nostro si nota ancor più come
le finanze giochino con indifferenza verso chi è “parte debole”
della società. Ed è tale (lo sappiamo) la loro influenza sui
Governi che questi ultimi spesso scelgono il remissivo gioco
complice. E così assistiamo a restrizioni che penalizzano
ulteriormente, selvaggiamente e vigliaccamente: famiglie dove sia
presente una persona bisognosa di assistenza, perché malata o
handicappata (penso all'indecente comportamento del Governo italiano
verso i malati di Sla); famiglie che debbano crescere i figli;
anziani nelle loro ristrette pensioncine; piccole e medie imprese
avviate con tanta passione e sacrifici... Altrettanto vigliaccamente
non vengono toccate le scandalose spese armamentari (vedi F-35. Il
Canada, l'Australia, l'Olanda e la Turchia, verbigrazia, pare abbiano rinunciato a tale acquisto);
i ben noti privilegi della , tra l'altro, screditata classe politica;
i grossi immobili e via dicendo.
Ma
torniamo all'argomento: nella pratica, può essere vincente
un'economia basata sulla solidarietà?
Sì:
lo confermano tante esperienze disseminate nella storia passata e
presente. Mi vien da pensare, ad esempio, a certe
tribù preistoriche impostate sul principio distributivo o alle
primitive comunità cristiane, che condividevano i beni per sostenere
chi si trovava nel bisogno(cf. At 2,44-45; 4,32.34-35). Mi vien da
pensare al Monachesimo, che convogliando la Buona Notizia in quel
“ora et labora” di occidentale indole, innovò in agricoltura,
architettura, farmaceutica, organizzazione civica, arte, cultura,
norme igieniche... ridestando gli animi (e l'economia) delle
prostrate e disorientate genti europee degli oscuri anni post Impero
(Romano). Penso ai Monti di Pietà di francescana memoria, creati per
facilitare liquidità alle classi più umili. Mi vien da pensare alle
geniali Riduzioni gesuitiche (1610c-1767): veri e propri centri di
liberazione-promozione umana, di rispettoso interscambio e reciproco
arricchimento delle culture indigena-europea e di giusto benessere
prodotto dal lavoro di tutti per il bene di tutti (attraverso una
meticolosa attenzione alle reali necessità dei singoli). Penso ai sempre più numerosi sostenitori della saggia ed ecologica filosofia di vita conosciuta col nome di Decrescita Felice. Penso alla Grameen bank sorta negli anni '70 in Bangladesh, dalla mente e dal cuore di Muhammad Yunus, che ha strappato tanti poveri lavoratori dalle tenaglie della fame, dagli usurai, e ha sfavorito segregazione femminile. Penso al
successo del recente circuito di credito Sardex che tanta
vitalità sta restituendo a molte imprese sarde sfiancate dalla crisi e
dall'annichilante sistema bancario convenzionale. Penso all'economia
solidale (Economia di Comunione) ideata e promossa con successo dal
Movimento dei Focolari in luoghi di povertà estrema (come il
Brasile), e a tante altre anonime (ma efficaci) iniziative del genere
che stanno germinando in diverse parti del mondo - ma i telegiornali
non si perdono in simili notiziole! - per far fronte alle necessità della gente che vive al “piano terra e scantinato”.
Un'economia
“dal basso” non va confusa con elemosina, ma si coniuga con il
senso più genuino (qindi concreto) della giustizia
sociale. Nella Bibbia (tradotta dai Settanta) il termine
greco eleemosyne (da
cui elemosina)
traduce il vocabolo ebraico sedaqàh:
giustizia (cf. Es 22,21-24; 23,10-11; Dt 14,28-29; 24,19-22;
26,11-12). San Luca, nel suo Vangelo (particolarmente sensibile alla
situazione degli ultimi, dei miseri e della condizione segregata
della donna...), colloca in modo particolarmente esplicito
l'elemosina nel contesto della pura giustizia sociale, inscindibile
dalla prassi cristiana e umana.
Perché
un'economia basata sui più deboli è proficua per tutti? In primo
luogo perché contribuisce in maniera notevole alla felicità di...
tutti - di chi ha e di chi non ha - in termini di appagamento
emozionale e spirituale (“non di sola
economia vive l'uomo!” - cf. Mt 4,4;
Lc 4,4) : fa bene ricevere quando si ha bisogno; fa bene sentirsi
utili a chi ha bisogno. Eppoi: un bilancio che parta dagli ultimi ha
una potente valenza pedagogica.
Ci insegna a capitalizzare secondo una precisa scala di valori che
pone la persona al primo posto. C'insegna ad “includere” e non ad
“escludere” (come il sistema imperante). Ci insegna a concentrare
le risorse all'interno del principio dell'essenzialità: giusto
impiego aderente al giusto (e prioritario) fabbisogno. C'insegna a
capire che - prendendo esempio dalle operose e comunitarie formichine
- il sovrappiù va debitamente stivato, in vista di chi ne può avere
bisogno (potrebbe essere ognuno di noi) e tenendo d'occhio con fare
previdente anche il provento delle generazioni future (cf. *CCC,
2415) se non vogliamo che queste ultime ci stramaledicano per aver
estinto follemente denari e risorse planetarie.
Si tratta dunque di cambiare stile di vita, e di molto! Perché
l'attuale ci sta portando all'infelicità, o all'autodistruzione se
si vuole (i due termini, nella sostanza, si equivalgono). Nel nostro
caso “cambiare stile” significa: vita più sobria. Allora forse,
potremmo scoprire che: risorse monetarie e risorse del pianeta
bastano per tutti senza bisogno di limitare – arbitrariamente (cf.
Populorum progressio, 22) – la crescita di certe Popolazioni
(guarda caso quelle dei Paesi più poveri: le meno responsabili -
anzi le vittime - delle occidentali rapine).
Dovremmo allora livellarci tutti al peggior stile sovchoz? No.
È normale e non moralmente scorretto che
ci siano persone che guadagnino, posseggano di più per molteplici
oneste ragioni (come posso, verbigrazia, biasimare gli agricoltori
del mio paese che, partiti dalla miseria, si sono arricchiti col
proprio sacrificio?). Non è normale, quello sì, che ci siano
persone che si arricchiscano abusando i beni del creato a loro uso e
consumo, come se ne fossero i soli padroni (cf. Gaudium et spes,
69), che accumulino ricchezze a scapito degli altri, preventivando
profitti sulle sciagure altrui (CCC, 2409).
C'è di più: la giusta e onestamente procurata ricchezza va anche
sanamente goduta e condivisa. La Bibbia dice che ogni uomo deve
usufruire con gioia e gratitudine dei doni del creato, messi da Dio a
dipendenza della sua (dell'uomo) felicità responsabile (cf. Gn
1,26-29).
Quando si vive il lavoro - e in esso l'economia - nella suo
autentico significato: l'abbellimento del creato per la gioia di
tutti, oltreché da questi (il creato) procurare il giusto provento
per se' e facilitare quello degli altri (non sono mai mancati, non
mancano - e sono tanti - uomini e donne che lavorano con questo
spirito!), si può scoprire come il lavoro sia... festa. La festa è
la naturale culminazione del lavoro come più sopra inteso. Il lavoro
di tutti a favore di tutti... è festa. Un'economia per tutti... è
festa. La festa non è concepibile... da soli. La festa non ha
successo quando gli invitati (l'umanità tutta) non sono parzialmente impossibilitati a prendervi parte.
La festa è la sana-esuberante espressione delle emozioni del cuore;
quelle che si provano solo quando ci si costruisce quali persone
“esistenzialmente attente” (= realizzate) ai deboli. Si fa più
festa quando si ha l'accortezza a che “tutti” abbiano diritto
alla festa.
Insomma: un bel maialino arrosto (annaffiato con robusto vino nero!)
ha più sapore se mangiato... insieme. E chissà: se il cuore è
speziato dagli intensi aromi della solidarietà, l'aromatico
porchetto natalizio acquisterà ancor più... sapore.
* Catechismo della Chiesa Cattolica
(Ignazio Cùncu Piano)