venerdì 21 dicembre 2012

L'ECONOMIA DEI DEBOLI

Natale - anche nella percezione di molti non credenti - è la festa dei deboli, dei diseredati, dei perdenti, oppressi dalle varie ingiurie della vita. Natale in poche parole è la festa degli “sfortunati dell'esistere”. La simbologia dei pastori, primi destinatari del lieto annunzio fatto dagli angeli (cf. Lc 2,8-20) dice per l'appunto un Natale che si fa lieta notizia per gli emarginati, nell'ambito sociale e morale (i pastori dell'ambiente giudaico non erano affatto avvolti dal romanticismo bucolico dei nostri variopinti presepi. In un ecosistema socio-religioso ove le accumulate, puritane e spesso ritorte glosse rabbiniche rendevano la fedeltà alla Legge insostenibile per il popolino, i pastori, per la loro vita randagia, non igienica e spesso dedita alla violenza, al furto, erano considerati tra la peggiore feccia d'Israele. Maledetti da Dio, senza salvezza; di certo sterminati alla venuta dell'atteso Messia giustiziere).

Non è mia intenzione mandare di traverso il panettone a nessuno, ma invitarmi (e invitare) a non espropriare questa festa della sua peculiarità più vigorosa: la speranza. E la speranza, si sa, va offerta soprattutto a chi non ha più motivi per sperare. Fa parte della logica dell'amore di Dio; quella logica di misericordia che pervade tutta la Storia Sacra. Quella logica che spinge Dio stesso a nascere uomo nella persona del figlio Gesù (quest'avvenimento - e nient'altro - ci ricorda il Natale). In Lui Dio entra nel tessuto della storia, nella povertà umana, svuotandosi, in un certo senso, dalle prerogative della Sua stessa divinità (cf. Fil 2,6-8). Viene a nascere in questo modo nella piena condivisione della normalità umana che, per un Dio onnipotente, ha valenza di estrema povertà. Povertà che condividerà fin nella morte - e morte infame (cf. ib 2,8; Gal 3,13) – per la salvezza di ognuno di noi.

Chi desidera vivere questa solenne festa (il Natale) in aderente spirito di fede (o in umana coerenza), non può escludere dalle proprie scelte di vita la condivisione con chi è nella necessità. Ma: chi è nella necessità? L'antropologia cattolica ci viene in aiuto: ognuno di noi, stringi stringi, è un necessitato. Sì: siamo - poiché umani - ontologicamente bisognosi. Non bastiamo a noi stessi. Dio ci ha fatti così. Ma non si è posto nessun problema circa questa nostra intrinseca limitatezza creaturale, visto che Egli stesso - e con immenso piacere - supplisce colmando i nostri aneli più essenziali e mai sazi ( vivere, essere amati, amare, gioire, godere...) con la sua eterna Perfezione Amante.
Ma se è vero che tutti siamo poveri, è pur vero che esistono - come ricordava la Madre Teresa di Calcutta - dei “poveri fra i poveri”. Sorelle e fratelli nostri di ogni età, che per diverse ragioni portano impresse nelle carni, nello spirito: segni, cicatrici di povertà, di dolore, di bisogni estremi.

Ma che c'entra tutto questo col titolo del post (l'economia dei deboli)? Tanto; forse tutto.

Se siamo d'accordo che le povertà più sopra espresse siano una minaccia agli essenziali aspetti dell'umano, spingendolo nel confine dell'esistenza non umana, siamo anche d'accordo che tutto, in uno Stato di Diritto che si dica moderno, debba concorrere – economia inclusa – al loro superamento.
In effetti, il “Certificato di Civiltà” di uno Stato di Diritto trova luogo proprio nella salvaguardia delle persone, avendo le più deboli come punto di riferimento. Deboli perché socialmente sfavorite; deboli per salute cagionevole, per handicap; deboli perché bambini, anziani, donne, immigrati, carcerati,...

La costante e naturale attenzione ai più deboli, per esser tale (quindi efficace) ha da toccare tutte le istanze della vita civile: dall'urbanistica (penso, per esempio, a quanto sarebbe più vivibile “per tutti” una città ideata per gli handicappati e per i bambini) ... all'economia.

Sarebbe a questo punto ingiusto non evidenziare gli enormi passi dati(in alcune parti della popolazione umana) in questo senso: nel campo medico, della legislazione sulle previdenze sociali eccetera. Ma è altrettanto doveroso e giusto fare continua autocritica per mettere in evidenza che soprattutto la filosofia del profitto, non sia così naturalmente incline verso i più deboli. L'ancestrale istinto alla legge della giungla, pur ampiamente abolito (e ne prendiamo felicemente atto) in tanti ambiti della vita civile, è in buona parte persistente - mimetizzato da altisonanti tecnici eufemismi - nei modelli finanziari vigenti. Lo vediamo nella macro-economia: vera e propria “struttura di peccato” (o, detto in termini non cristiani: di anti-vita). Padre Ellacurìa (gesuita, assassinato a San Salvador nel 1989) sottolineava come l'assetto finanziario del globo così impostato sia da considerarsi una struttura di peccato (anti-uomo) visto che per assicurare l'esuberante fatturato dei pochi, necessita far languire i molti nella miseria. La legge del più forte. La legge della giungla.

Ma, un sistema economico che escluda i molti, col tempo è votato a volgersi contro... tutti; inclusi gli stessi che in un primo momento ne sono i ristretti beneficiari. Diventa un imbuto, nel quale, un po' alla volta, tutti ci troviamo... strozzati. Qual'è la trappola ad esso (il sistema) intrinseco? La voracità egoista (su questi due aspetti, forse, tutti dovremmo fare un profondo esame di coscienza). Voracità, egoismo. Due ingredienti capaci di far collassare ogni progetto che voglia dirsi “umano”. Senza dubbio l'ambito economico è dove sono più tangibili i devastanti effetti di queste due tensioni-sorelle (voracità ed egoismo appunto) che dimorano - sempre arzille! - in ognuno di noi. Per fortuna non sono sole! Il nostro intimo è abitato da altri e altrettanto vivaci abitanti (altruismo, compassione, tenerezza, desiderio di crescere e di far crescere...) capaci di vigilare, zittire e neutralizzare (se vogliamo) le due perniciose e mai arrendevoli coinquiline.

Io non intendo di macro economie; me la cavo abbastanza nell'economia della massaia (quella che, forse, più dovrebbe essere presa in considerazione dalle macro economie). Ma sono fermamente convinto che la base di ogni sistema economico dal volto umano, si basi su un insindacabile assioma: la solidarietà: l'attenzione verso i meno protetti. Come sono convinto che un'economia di questo tipo - un economia “dal basso, che parta dai più piccoli della terra” - sia vincente, fautrice di giusto benessere... per tutti. Sì, dico bene: giusto benessere. Perché ciò che sa di sproporzione non è umano e non fa bene a nessuno: nemmeno a chi ha... sproporzionatamente.

In tempo di crisi come il nostro si nota ancor più come le finanze giochino con indifferenza verso chi è “parte debole” della società. Ed è tale (lo sappiamo) la loro influenza sui Governi che questi ultimi spesso scelgono il remissivo gioco complice. E così assistiamo a restrizioni che penalizzano ulteriormente, selvaggiamente e vigliaccamente: famiglie dove sia presente una persona bisognosa di assistenza, perché malata o handicappata (penso all'indecente comportamento del Governo italiano verso i malati di Sla); famiglie che debbano crescere i figli; anziani nelle loro ristrette pensioncine; piccole e medie imprese avviate con tanta passione e sacrifici... Altrettanto vigliaccamente non vengono toccate le scandalose spese armamentari (vedi F-35. Il Canada, l'Australia, l'Olanda e la Turchia, verbigrazia, pare abbiano rinunciato a tale acquisto); i ben noti privilegi della , tra l'altro, screditata classe politica; i grossi immobili e via dicendo.

Ma torniamo all'argomento: nella pratica, può essere vincente un'economia basata sulla solidarietà?
Sì: lo confermano tante esperienze disseminate nella storia passata e presente. Mi vien da pensare, ad esempio, a certe tribù preistoriche impostate sul principio distributivo o alle primitive comunità cristiane, che condividevano i beni per sostenere chi si trovava nel bisogno(cf. At 2,44-45; 4,32.34-35). Mi vien da pensare al Monachesimo, che convogliando la Buona Notizia in quel “ora et labora” di occidentale indole, innovò in agricoltura, architettura, farmaceutica, organizzazione civica, arte, cultura, norme igieniche... ridestando gli animi (e l'economia) delle prostrate e disorientate genti europee degli oscuri anni post Impero (Romano). Penso ai Monti di Pietà di francescana memoria, creati per facilitare liquidità alle classi più umili. Mi vien da pensare alle geniali Riduzioni gesuitiche (1610c-1767): veri e propri centri di liberazione-promozione umana, di rispettoso interscambio e reciproco arricchimento delle culture indigena-europea e di giusto benessere prodotto dal lavoro di tutti per il bene di tutti (attraverso una meticolosa attenzione alle reali necessità dei singoli). Penso ai sempre più numerosi sostenitori della saggia ed ecologica filosofia di vita conosciuta col nome di Decrescita Felice.  Penso alla Grameen bank sorta negli anni '70 in Bangladesh, dalla mente e dal cuore di Muhammad Yunus, che ha strappato tanti poveri lavoratori dalle tenaglie della fame, dagli usurai, e ha sfavorito segregazione femminile. Penso al successo del recente circuito di credito Sardex che tanta vitalità sta restituendo a molte imprese sarde sfiancate dalla crisi e dall'annichilante sistema bancario convenzionale. Penso all'economia solidale (Economia di Comunione) ideata e promossa con successo dal Movimento dei Focolari in luoghi di povertà estrema (come il Brasile), e a tante altre anonime (ma efficaci) iniziative del genere che stanno germinando in diverse parti del mondo - ma i telegiornali non si perdono in simili notiziole! - per far fronte alle necessità della gente che vive al “piano terra e scantinato”.

Un'economia “dal basso” non va confusa con elemosina, ma si coniuga con il senso più genuino (qindi concreto) della giustizia sociale. Nella Bibbia (tradotta dai Settanta) il termine greco eleemosyne (da cui elemosina) traduce il vocabolo ebraico sedaqàh: giustizia (cf. Es 22,21-24; 23,10-11; Dt 14,28-29; 24,19-22; 26,11-12). San Luca, nel suo Vangelo (particolarmente sensibile alla situazione degli ultimi, dei miseri e della condizione segregata della donna...), colloca in modo particolarmente esplicito l'elemosina nel contesto della pura giustizia sociale, inscindibile dalla prassi cristiana e umana.

Perché un'economia basata sui più deboli è proficua per tutti? In primo luogo perché contribuisce in maniera notevole alla felicità di... tutti - di chi ha e di chi non ha - in termini di appagamento emozionale e spirituale (non di sola economia vive l'uomo!” - cf. Mt 4,4; Lc 4,4) : fa bene ricevere quando si ha bisogno; fa bene sentirsi utili a chi ha bisogno. Eppoi: un bilancio che parta dagli ultimi ha una potente valenza pedagogica. Ci insegna a capitalizzare secondo una precisa scala di valori che pone la persona al primo posto. C'insegna ad “includere” e non ad “escludere” (come il sistema imperante). Ci insegna a concentrare le risorse all'interno del principio dell'essenzialità: giusto impiego aderente al giusto (e prioritario) fabbisogno. C'insegna a capire che - prendendo esempio dalle operose e comunitarie formichine - il sovrappiù va debitamente stivato, in vista di chi ne può avere bisogno (potrebbe essere ognuno di noi) e tenendo d'occhio con fare previdente anche il provento delle generazioni future (cf. *CCC, 2415) se non vogliamo che queste ultime ci stramaledicano per aver estinto follemente denari e risorse planetarie.

Si tratta dunque di cambiare stile di vita, e di molto! Perché l'attuale ci sta portando all'infelicità, o all'autodistruzione se si vuole (i due termini, nella sostanza, si equivalgono). Nel nostro caso “cambiare stile” significa: vita più sobria. Allora forse, potremmo scoprire che: risorse monetarie e risorse del pianeta bastano per tutti senza bisogno di limitare – arbitrariamente (cf. Populorum progressio, 22) – la crescita di certe Popolazioni (guarda caso quelle dei Paesi più poveri: le meno responsabili - anzi le vittime - delle occidentali rapine).

Dovremmo allora livellarci tutti al peggior stile sovchoz? No. È normale e non moralmente scorretto che ci siano persone che guadagnino, posseggano di più per molteplici oneste ragioni (come posso, verbigrazia, biasimare gli agricoltori del mio paese che, partiti dalla miseria, si sono arricchiti col proprio sacrificio?). Non è normale, quello sì, che ci siano persone che si arricchiscano abusando i beni del creato a loro uso e consumo, come se ne fossero i soli padroni (cf. Gaudium et spes, 69), che accumulino ricchezze a scapito degli altri, preventivando profitti sulle sciagure altrui (CCC, 2409).

C'è di più: la giusta e onestamente procurata ricchezza va anche sanamente goduta e condivisa. La Bibbia dice che ogni uomo deve usufruire con gioia e gratitudine dei doni del creato, messi da Dio a dipendenza della sua (dell'uomo) felicità responsabile (cf. Gn 1,26-29).

Quando si vive il lavoro - e in esso l'economia - nella suo autentico significato: l'abbellimento del creato per la gioia di tutti, oltreché da questi (il creato) procurare il giusto provento per se' e facilitare quello degli altri (non sono mai mancati, non mancano - e sono tanti - uomini e donne che lavorano con questo spirito!), si può scoprire come il lavoro sia... festa. La festa è la naturale culminazione del lavoro come più sopra inteso. Il lavoro di tutti a favore di tutti... è festa. Un'economia per tutti... è festa. La festa non è concepibile... da soli. La festa non ha successo quando gli invitati (l'umanità tutta) non sono parzialmente impossibilitati a prendervi parte.
La festa è la sana-esuberante espressione delle emozioni del cuore; quelle che si provano solo quando ci si costruisce quali persone “esistenzialmente attente” (= realizzate) ai deboli. Si fa più festa quando si ha l'accortezza a che “tutti” abbiano diritto alla festa.

Insomma: un bel maialino arrosto (annaffiato con robusto vino nero!) ha più sapore se mangiato... insieme. E chissà: se il cuore è speziato dagli intensi aromi della solidarietà, l'aromatico porchetto natalizio acquisterà ancor più... sapore.

* Catechismo della Chiesa Cattolica
                                                                                                           (Ignazio Cùncu Piano)

giovedì 20 dicembre 2012

SANTA FAUSTINA: UN'UMILE DISPENSATRICE DI PANE

 (prima parte).

A pochi metri del colonnato del Bernini(in Roma),si erge la bella chiesa di S. Spirito in Sassia. Costruita nel XII secolo sui ruderi di un ostello per pellegrini sassoni(da cui “in Sassia”),nel 1993 venne eretta - per volontà di Giovanni Paolo II - santuario (e centro di spiritualità) della Divina Misericordia. Il Santo Padre sanciva così una “richiesta molto speciale” circa un culto già esteso in tutto il mondo. La “speciale richiesta” (di riaffermare nella Chiesa la devozione al Cuore Misericordioso di Gesù) venne infatti espressa dallo stesso... Gesù, attraverso numerose apparizioni ad un'umile religiosa polacca:Faustina Kowalska(proclamata santa nel 2000). Chissà, “la Provvidenza non si smentisce mai!”, avrà pensato con gioia il Papa, visto che fu lui stesso che nel 1963, allora arcivescovo di Cracovia,sollecitò presso la S. Sede la causa di suor Faustina, mentre la Congregazione per la Dottrina della Fede riusciva ad ottenere chiarezza sugli scritti della religiosa e sul culto, adulterati dottrinalmente da mani imprudenti. Addentriamoci nella storia di questa piccola grande donna del XX secolo. Elena(nome di battesimo) nasce il 25 Agosto 1905, terza di 10 figli,nel villaggio di Glogowiec. I genitori, Maria Anna e Stanislao, lavorano i campi, ricchi solo di tanta fede. La bambina cresce allegra; ama giocare con i coetanei ed è molto sensibile ai poveri. A 9 anni riceve con gioia la Prima Comunione. Deve però lasciare la scuola per... portare le mucche al pascolo! La sua fede è viva e cosciente,segnata prematuramente da esperienze mistiche; c'è da stupirsi di tanto? Sì e no. Chi ha conoscenze di psicologia religiosa infantile, sa che i bambini e... Dio, hanno un modo tutto loro per capirsi, dei codici speciali. All'età di 8/9 anni, poi,“l'intelligenza spirituale” diventa acutissima: spesso fini quesiti teologico/morali mettono in difficoltà più di un genitore o maestra/o. Ricordo un libriccino letto anni fa su “bambini morti in concetto di santità”. Ignorare tutto ciò è una grande lacuna per un adulto, specie se educatore. Torniamo ad Elena. All'età di 14 anni, mentre inizia a lavorare come domestica,si fa più chiara la vocazione alla vita consacrata. Dopo tante avversità, desiste da quell'idea immergendosi in una vita discretamente mondana. Come scriverà poi nel suo diario, sarà Gesù stesso, quale innamorato geloso,che le parlerà al cuore(cfr. Os 2,16)riaccendendo in lei una fiamma in realtà mai spenta. Busserà alle porte di vari istituti religiosi... ma nessuno se la sente di accettare una ragazza così povera e illetterata. Nell'agosto del 1925,viene accolta nella congregazione delle suore di Nostra Signora della Misericordia: il cuore di Elena è al settimo cielo! Questa congregazione, fondata in Francia nella seconda metà del XIX secolo, si dedica all'educazione/prevenzione nonché al recupero di ragazze e donne socialmente a rischio. La Nostra inizia il noviziato col nome di suor Faustina e dopo 5 anni emette i voti perpetui. La sua vita è all'insegna della perfetta letizia, anche nei numerosi momenti “delle spine”. E' una religiosa cordiale, serena, particolarmente amata dalle educande. Appartiene al gruppo delle suore coadiutrici,addette ai lavori più pesanti della casa. Svolge i servizi di portinaia, giardiniera e cuoca in modo eloquente(le sue aiuole e fiori! I suoi dolci! La sua amorevolezza con chi bussa alla porta, soprattutto se si tratta di poveri!). Tutto, per lei, è una “scusa” per servire, amare Dio e il prossimo. Muore in fama di santità, a 33 anni appena, dopo una lunga e sofferta malattia(la tubercolosi). Ma quale l'evento che renderà Faustina protagonista e tramite di quel Buon Messaggio(il Vangelo) così antico e risaputo, ma sempre tanto nuovo e da scoprire... riproposto come unico luogo di salvezza “anche” per la travagliata umanità di fine e inizio millennio?Esiste una singolare relazione che imbeve il corso della sua esistenza e che assumerà tonalità inimmaginabili. Il suo diario ci aiuterà ad introdurci in quest'avventura interiore, da farci assaporare quella fragranza spirituale che, quale pane profumato e fresco di forno, tutti siamo chiamati a... “mangiare gratis e in abbondanza”(cfr.Is55,1-2), secondo la vocazione di ciascuno .

Tutti mangiarono e furono saziati” (Mt 14,20a)

(seconda parte).

Signore Gesù, trasformami in te, perché io sia il tuo riflesso vivente (…); desidero essere un riflesso del tuo Cuore M1,voglio glorificare la tua M. Imprimila nel mio cuore come un sigillo indelebile (…). Ho una sola ragione di essere: rendere gloria alla tua M(diario, 1937) - . Parole che mostrano l'unica ragion d'essere della nostra “venditrice di pane” e quella di ogni adoratore dello Spirito, l'alveo vitale di ogni discepola/o. Faustina ha una ragione in più, poiché il Signore le si rivela in modo sensibile e le manifesta il mistero della sua M contagiandole il desiderio di offrire la vita per la salvezza dei peccatori: i più miseri tra i miseri. Lo stesso risveglio vocazionale dopo la parentesi mondana ebbe luogo attraverso una visione di Gesù che un passo alla volta la condusse all'approdo anelato(cfr. diario).Praticamente,dal noviziato in poi, sarà un susseguirsi di dialoghi con Lui(e sua Madre): densi di delicatezze, consolazioni, propedeutici alla missione che le verrà affidata. Veniamo quindi al momento cruciale.1931: Faustina si trova nel convento di Plock, addetta al pesante lavoro della cucina e alla vendita del pane. Alla sera, mentre sta nella sua cella:- “Vidi Gesù con la veste bianca(...)dal petto uscivano due grandi raggi, rosso e bianco. Mi disse:“dipingi(fai dipingere)un quadro secondo l'immagine che vedi,con sotto la scritta: Gesù, confido in te. Desidero che venga venerato(...)nel mondo intero”(diario)-. I raggi indicano l' acqua e il sangue(cfr.Gv19,33-34;1Gv5,6-8),simboli tanto declamati da padri e dottori della chiesa. Anche se la richiesta è molto chiara,l'incertezza invade la religiosa quando il confessore tentenna. Ma Gesù incalza:-Desidero che i sacerdoti annuncino questa mia grande M(...).Non temano[i peccatori]di avvicinarsi a me(Ivi)-. Povera Faustina e... povero confessore! E' già di per se' arduo discernere un'anima che presume visioni,si aggiunga la richiesta di una nuova2 devozione! Anche le consorelle sono confuse e spesso - in buona fede alcune e con disprezzo altre - cercano di dissuaderla circa le presunte “voci”.Ma la Provvidenza sa il fatto suo:manderà uomini di spessore quali il padre Elter(gesuita)e don Michele Sopocko, per rassicurare che “è Dio che parla”. Don Sopocko(proclamato beato nel 2008) sarà dal 1933 il suo confessore. Nella sua persona si realizza la promessa[fatta da Gesù] che la Nostra tanto anelava: un presbitero santo e saggio, teologo ad oc, che sappia intuire ed interpretare. Non saranno rose nemmeno per lui condividere simile avventura, ma ne sarà all'altezza, consapevole delle spine del percorso. Detto fatto. Quando questa benedetta donna di soli 28 anni,oltre al quadro, aggiunge la pretesa[di Gesù]di stabilire la festa della divina M la prima domenica dopo Pasqua, don Michele sente che deve prender fiato! Prega, rincara l'ascesi, interpella amici teologi nonché le superiore di Faustina, alla quale chiede di sottomettersi ad una perizia psichiatrica. Richiesta dolorosa e umiliante per quei tempi, ma empiricamente utile. Non dubita tanto delle virtù della sua penitente, quanto della di lei missione, diciamo... esorbitante. Ma il dubbio in questi casi fa gioco alla Provvidenza. Il quadro viene portato a termine, e sempre sotto richiesta del Signore, verrà esposto (la 2^ domenica di Pasqua,1935) nel celeberrimo santuario di Wilno3,da secoli dedicato a Nostra Signora della M: una missione impossibile fatta realtà! E lì don Michele capisce che è tutto “troppo vero”. D'ora in poi decuplicherà lo zelo verso quella M che si riverserà quale potente refrigerio sull'imminente inferno della guerra(predetta da Faustina nel 1928)e sull'umanità tutta:proprio come Gesù promise alla sua “bambina del pane”.

Signore, nella vita potrei perdere tutto, anche la grazia; ma non perderò mai la confidenza nella tua misericordia” - (san Claudio la Colombière)

(terza parte).

Le visioni mistiche e la crescente notorietà non sposteranno di un millimetro la vita quotidiana di Faustina. Resterà sempre umile suora conversa, prodiga verso le amate consorelle ed educande. Poi c'è l'orto, il giardino, la cucina, la vendita del pane, il guardaroba. La sua personalità rimane sana, centrata, portata quindi alla gioia e a godere delle cose belle e buone. La sua anima,immersa nell'amore splendido di Dio,respira un perenne godimento anche in mezzo a desolazioni di ogni sorta. Perché allora tanta voglia di soffrire(cfr. diario)?Per AM4(cfr.2°cap.).Non si può A senza soffrire5. Arduo per noi capire. Compenetrata nella passione redentrice di Gesù,vive in funzione del “ritorno dei peccatori: i privilegia della M. E' quindi l'AM che fa perno nell'Eucaristia il centro vitale della Nostra; il resto(visioni, profezie, bilocazioni, lettura dei cuori...)è di sovrappiù. Il nucleo della vita di fede infatti(come sappiamo)è la “relazione intima con Dio”, che si dà quasi sempre senza manifestazioni speciali,è lasciarsi modellare dallo Spirito(alla luce della Parola) a immagine di Cristo secondo il Padre lo desideri in ognuno di noi: nei sacramenti, nella preghiera, nella carità quotidiana fatta di relazioni, di lavoro. C'è di più: desiderare visioni o robe simili non è cosa sana! Lo ammoniva anche la santa d'Avila alle sue consorelle. Insomma: meglio carità concreta che grilli per la testa!Ma:allora...?!?Le apparizioni-se autentiche(si pensi a Lourdes,Fatima...)-sono eventi che non aggiungono nulla al contenuto della fede che Gesù(e gli apostoli)ha depositato nella sua Chiesa, ma lo corroborano, lo ripropongono con tonalità nuove in momenti in cui la Provvidenza lo ritenga opportuno. La missione stessa di Faustina non fu novità; ricondusse con nuove forme di culto al punto focale della nostra fede: la M di Dio./ Chi ha letto il diario, avrà anche colto l'accortezza della santa nel filtrare tutto attraverso i confessori e il vescovo. Dio stesso lo richiedeva. Faustina gioisce nel sapersi Chiesa,Corpo Mistico di quello stesso Gesù col quale dialoga, nel cui seno verrà sigillato il marchio dello Spirito sulla sua missione. E' infatti nell'autorità dei vescovi in comunione col papa che Dio conferisce veridicità ad un Suo stesso speciale intervento nella storia. La saggia prudenza che porta la Chiesa a dubitare, a setacciare l'ortodossia e a volte ad osteggiare, fa da sano giocoforza, perché: se da Dio...(cfr. At 5,39)./Tra tante, speciali perle [nel diario]della nostra illetterata guardarobiera sono le esperienze mistiche. Descritte con sorprendente chiarezza, formano a tutto tondo un quadro sinottico con quelle di Teresa d'Avila, Ignazio di Loyola, Giovanni della Croce, Teresina di Lisieux. Sempre con preclara semplicità si addentra in dissertazioni teologiche degne dell'Aquinate! E' Dio che si diverte a far spaziare la sua bambina su quelle “vette” che ad altri(i teologi)son costate anni di “faticosa scalata”. Non è lo stesso papa Benedetto a ricordarci che la teologia ha senso solo se sottomessa al “realismo dei santi?6”. Anche san Tommaso ci ricosrda che la teologia è, soprattutto Sapienza, cioè: una conoscenza saporosa, frutto dell'esperienza diretta con l'amore di Dio. Il culto alla Divina M include varie forme di pietà(novena, coroncina, l'ora della passione) ma il momento culmine è la Festa, nella 2^ domenica di Pasqua. La data liturgica non è casuale, visto che Redenzione e M s'identificano nella realtà del Triunico che: “E' LA M”./ Oggi la devozione è felicemente radicata in tanti cuori, molti dei quali hanno trovato la fede suo intermedio, come testimonia di se stessa, verbigrazia, l'attrice Claudia Koll. Le devozioni, infatti, altro non sono che mezzi per maturare una fede Cristocentrica, adulta e senza fronzoli,(“salda ed essenziale”,diceva padre Vittore)vissuta con carità effettiva./ Chi vuol saperne di più su santa Faustina ed il culto al Cuore M di Gesù, può contare su un'estesa bibliografia che include il menzionato diario. La fraseologia[del diario],i termini,gli allegorismi e certi modi della santa, riflettono un po' la spiritualità dell'epoca: ma il succo c'è tutto. Buona lettura.

Alleluia! Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua Misericordia!” (Sal 135,1)

UNA VENDITRICE DI PANE... DOTTORE DELLA CHIESA? (quarta ed ultima parte)

Nel contesto del 2° Congresso mondiale della Divina M[isericordia]7, dai vescovi là presenti è partita una richiesta per il Santo Padre:attribuire a suor Faustina il titolo di “D[ottore]d[ella]C[hiesa]”. Petizione che non lascia stupito chi abbia letto il[di lei]diario. Lo straordinario riconoscimento(di DdC)viene conferito a quei/lle santi/e che arricchirono la fede del Popolo di Dio attraverso opere letterarie di notevole spessore teologico e mistico. Tra le donne figurano:Caterina da Siena,Teresa d'Avila e Teresina di Lisieux. Gli uomini sono più numerosi(!); ne cito alcuni: Atanasio, Ambrogio, Agostino, Tommaso d'Aquino, Giovanni della Croce. Come si può immaginare,generalmente si trattò di persone vocate allo studio. Ma prima di tutto donne e uomini amanti di Dio e delle Sue verità,per le/i quali la contemplazione del Mistero era da anteporre alla pur sottilissima speculazione teologica(cfr.Sap7,7b.15),considerata da loro opaco riverbero del Suo splendore (cfr. Sap7,25-27.29). Donne e uomini di luminosa e pura umiltà; come tutti i veri sapienti, del resto (cfr.Sir3,17-20). Ma torniamo alla Nostra. Una giovane suora conversa con nemmeno la terza elementare,nel firmamento dei DdC?!? La risposta, come accennato sopra, la troviamo nel diario. Rimando ai precedenti articoletti in cui ne delineai, in estrema sintesi, le caratteristiche. Analizziamone alcune che ne giustificherebbero il “dottorato”.Non ha dimestichezza di penna, ma il suo stile è chiaro e trasparente,accessibile a tutti.Inizia a redigere il diario (1934) quasi controvoglia8, per obbedienza al padre spirituale. In effetti è Gesù stesso che lo richiede,nominandola amorevolmente: “Mia carissima segretaria(…)segretaria della mia M(Diario)”. Cosciente di ciò,Faustina, con la tipica fiducia dei santi, immerge mente, cuore e... penna nei calamai dello Spirito:“Pregai brevemente lo Spirito Santo, poi dissi:“Gesù,benedici questa penna,affinché tutto(...)sia a gloria di Dio”. E subito udii una voce:“Sì, la benedico poiché(...)molte anime ne riceveranno vantaggio. Figlia mia, voglio che tutti i momenti liberi li impieghi a scrivere sulla(...)M(Diario)”. Vi lavorerà nei ritagli di tempo libero, fino alla morte. Il contenuto è in totale armonia colla Fede della Chiesa. Se vogliamo, l'originalità di questi scritti consiste nell'intreccio spontaneo tra esperienze di vita ordinaria, riflessioni teologiche e trasfiguranti estasi mistiche. Poi c'è l'aspetto, a mio avviso, “omologante”: la fedele trascrizione dei dialoghi con Gesù e la Madonna, avvenuti attraverso apparizioni o mozioni dell'anima. La massiccia diffusione della devozione e le innumerevoli conversioni, dicono la straordinaria efficacia dell'opera di quest'umile e illetterata venditrice di pane. Quasi scontato ribadire il ruolo decisivo di papa Giovanni Paolo nella meravigliosa avventura. Non sarà mai di troppo, invece, precisare l'unica ragione degli scritti:“la M che è Dio stesso in Cristo Gesù, Volto della tenerezza del Padre, Principio e Culmine di tutto, nostra gioia, dolce rifugio dei peccatori. Paradossalmente, infatti, è nel perdono dei peccati che viviamo l'esperienza fondante di M, la ricostruzione ontologica della persona, il ritorno alla vita vera e buona. Rimane un quesito in sospeso: Faustina mai realizzò studi di teologia. Allora? Anche qui rimando all'anteriore capitoletto: il Signore fa uso della Sua onnipotenza (cfr. Lc1,37) nel modo più appropriato con ciascuno dei suoi figli, per il bene di tutti. Con Faustina Si diletta nel comunicarle in soli pochi attimi di osmosi mistiche, sublimi realtà teologiche. Qualche analogia con un'altra giovane donna: Caterina da Siena. Il suo “Dialogo della Divina Provvidenza” (il magistrale trattato da lei dettato) inebriò a tal punto la finissima sensibilità spirituale di papa Paolo VI, il quale non esitò a proclamarla DdC. Tutto ciò non sminuisce lo sforzo investigativo degli altri[DdC]: semplicemente sentieri diversi convergenti alla medesima Vetta. Allora:riceverà la Nostra il meritato titolo? Le credenziali ci sono; la Chiesa dirà. Nel frattempo ci rallegra la certezza che in Cielo, la candidata, ha già ricevuto il suo... diploma.

Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili alla M di Dio (...). Dimorare nella debolezza: ecco l'unica via per entrare nella grazia e per diventare un miracolo della M” (André Louf)


1Misericordioso, misericordia;
2In realtà la devozione esisteva già, ma con meno enfasi;
3oggi Vilnius, capitale della Lituania;
4AM: amore misericordioso; A: amore; M: misericordioso, misericordia...;
5Benedetto XVI, omelia per l'apertura dell'Anno Paolino;
6J. Ratzinger, Guardare Cristo, Jaka Book, 1989, p.28;
7Svolto a Cracovia, tra fine settembre e inizio ottobre 2011;
8Tipica rluttanza dei santi, frutto dell'umiltà.

domenica 25 novembre 2012

TURISMO IN SARDEGNA: RICREARE LA RICREAZIONE

TURISMO IN SARDEGNA: RICREARE LA RICREAZIONE.

Ogni tanto su giornali, riviste, aeroporti... mi capita di osservare variopinti frammenti costieri dall'inequivocabile firma. Un invito ad approdare ai nostri lidi. Niente di male un po' di pubblicità. Ma insistere sempre sul mare mi sembra una forzatura, un sovrappiù. Alla stessa stregua di una Venezia che dovesse continuamente ricordarci le romantiche calli d'acqua, ovvero: la sua più ovvia peculiarità turistica.

Che l'Isola sia fornita di coste, spiagge, mare splendido... è noto a tutti. Dovrebbe essere un dato così scontato nella nostra mentalità turistica, da far centrare l'attenzione su aspetti più importanti: quelli che fanno al nostro merito, per capirci. Perché, siamo onesti: quegli splendori naturali sono annoverabili tra i meriti del buon Dio! Mentre nostro vanto sarà, verbigrazia, l'impegno nella salvaguardia di cotanta bellezza.

Nell'Isola, dal suo espandersi in poi, abbiamo assistito di frequente ad un turismo abusato, altamente inquinante: dalla struggente edilizia alla sporcizia tra la vegetazione. Per non parlare poi di certe stravaganti-ripetute menomazioni, effettuate da chi ha la cafona abitudine di strappare souvenir direttamente da Madre Natura. Tutti abusi dovuti - oltre all'inciviltà di chi li commette - alla nostra “lassezza ecologica”. Se fossimo dovutamente esigenti nel rispettare e far rispettare, applicando all'occorrenza proporzionati “iscramentus” (multe a mo' di monito) legali, allora la musica sarebbe altra! Nei luoghi dove il controllo esiste, si può osservare come - oltre alle persone addette - sia la popolazione tutta a vigilare. Si crea così una sorta di “eco-atmosfera” tale, che le persone che che lì villeggiano si sentono gentilmente... controllate (forse il termine non è il più adatto), esortate al rispetto di una porzione del pianeta che - UNESCO o non UNESCO - è patrimonio dell'intera umanità.

E se anche noi facessimo così? I turisti verrebbero più volentieri e più... civilmente selezionati! Perché laddove c'è serietà ecologica, cordialità e prezzi ragionevoli, il buon turismo è vincente. Sì: esiste un turismo serio, amante della natura, della semplicità, dalle esigenze non sofisticate, attento alle specifiche culture dei popoli - quello dobbiamo favorire! - il quale apprezza la trilogia: cordialità, natura ben curata, prezzi.

La salvaguardia ecologica quindi, ai primi posti. Da essa dipende tutto il resto. Che senso avrebbe lucrare avidamente su un mal gestito turismo lasciando deperire, alla fin fine, la stessa fonte di lavoro? Eppure spesso così accade. E il turista se ne va con l'impressione apposta: passiva cura dell'ambiente (molti, al loro ritorno dalla Sardegna, portano l'impressione di : paradisiaci ambienti spesso abbandonati a se stessi, alla mercé del primo malintenzionato...), prezzi esosi, servizio evanescente e a muso lungo. Naturalmente non sempre è così. Laddove curiamo il tutto e siamo cordiali (e quando vogliamo, sappiamo esserlo in maniera singolare), i visitanti se ne accorgono, apprezzano molto... e ritornano ben disposti. Perché si sentono bene, caldamente accolti, messi al loro agio, rispettati e invitati a rispettare.

La vocazione turistica , in fin dei conti, è una missione tutta speciale dove i rapporti umani, più in là delle apparenze, ne costituiscono la piattaforma. In fondo si tratta di un incontro tra due gruppi di persone: quelle che vivono il tempo della ricreazione, e coloro che ospitano facendo sì che quest'ultima sia piacevole. Ne scaturisce un arricchimento reciproco, che rende la vocazione turistica un'esperienza assai più profonda di un mero lucrativo mestiere.

La predisposizione al turismo non può prescindere dalla rigorosa pulizia in senso ampio. Mi riferisco alla nettezza urbana ben organizzata, ai cassonetti, alle cose fatte bene, messe in ordine. Tralasciare o meno questi aspetti fa la differenza eccome! No: non basta il bel mare! Tutto l'insieme dev'essere bello. Bello e... pulito. Perché un autentico senso del turismo include l'idea del bello “armonico con l'ambiente” : “ Chi a palas de is ermosas plaias, de s'oru 'e mari, ddoi fuiaus donnia calidadi 'e aliga e fareus agatai donnia bruttesa manna, e ddoi funt ainas ghettadas a pari, a sa managa, is turistas sin-ddi acatant e no at a essi ua recrama bona pro nosus...”.

Ed ecco il turno dei segnali stradali. Insufficienti, come ben sappiamo. E come fa il malcapitato turista...? Chi traccia la segnaletica dovrebbe mettersi costantemente nei panni del visitatore che per la prima volta si cimenta nella rete stradale isolana. Spesso - causa cartelli mancanti o poco orientanti - si è costretti giocare alla roulet russa per azzeccare la meta prescelta! D'accordo: ci sono le mappe e tecnologie varie. Ma non ci esimono dal nostro civico dovere. Perché quando sei lì, davanti al fatidico e ingarbugliato incrocio, nella deserta campagna, specie se immerso nella tenebrosa notte sarda: una buona segnaletica è un sollievo da non poco!

Insomma: siamo noi che, in certi aspetti dobbiamo adattarci alle esigenze dei visitanti. Penso, per esempio, alla configurazione degli orari (perlomeno quelli estivi) di musei, chiese,... Ho notato (e mi è stato fatto notare) che soprattutto i turisti di provenienza anglosassone o nordica in generale, nelle visite alle nostre città, non rispettano le pause canicolari. Chiudere bottega in questo lasso di tempo non equivale certo a mettere al loro agio queste persone.

Eppoi le chiese. I turisti amano visitare le nostre chiese! Ma - ahimè! - molti sono costretti a sostare sconsolati all'uscio per via dei... cartelli. Non mi pare risponda al buon senso proibire un abbigliamento più che consono nelle torride estati sarde. Pantaloni fino al ginocchio e magliette prive di maniche (non aderenti e senza scollature o riduzioni varie) - tipica uniforme del turista che cammina, sia nell'uomo che nella donna - mi sembrano abiti più che dignitosi. In altri Paesi caldi come la nostra Isola, non si fanno di questi problemi.

Ed ora... circa la grande-grave questione: la massiva edilizia nelle coste è sinonimo di maggior profitto economico? No. In teoria l'assioma pare assimilato; ma nella prassi...! Tutt'ora si assiste all'innalzamento di cubiche strutture in luoghi ancora vergini, quasi dia fastidio che rimangano degli ambiti non imbrattati da mattoni e cemento. Insomma: ingordi fino all'osso! È chiaro che l'edilizia debba essere contemplata dall'industria turistica, ma plasmando il tutto in sintonia con l'ambiente; le coste sarde non sono la riviera Adriatica, Punta del Este o le spiagge carioca.

Nemmeno il “turismo di lusso” è di ecologica ed economica convenienza. In gran parte parliamo di gestioni dalla titolarità oltremare, le quali, in proporzione agli ingenti sacrifici ambientali da esse richiesti, lasciano esigui benefici in loco (in termini complessivi). Nemmeno l'agricoltura, la manifattura e l'allevamento nostrani si beneficiano come dovuto, visto che negli empori di questi agglomerati troviamo facilmente - e non da adesso - notevoli quantità di prodotti esterni.

Insomma: il turismo costiero (guarda caso, quello che maggiormente gonfia il nostro vanto) parla ancora di un protagonismo gestionale più o meno periferico da parte nostra. I capitali esterni facilmente hanno la meglio sulla nostra remissività territoriale. E se è pur vero che la Regione Autonoma (!) in suddette manovre ha sostenuto (e sostiene) gravi azioni complici, tutti dobbiamo sentirci in certo modo responsabili ed interpellati verso un cambio di rotta. Perché sa di presa in giro sapere che gli effetti di costose inversioni pubblicitarie (cf. proemio), defluiscano, in buona parte, entro salvadanai altrui! Perché ha del patetico dover sentire ancora oggi: “ Ma è vero che alcuni facoltosi Arabi stanno acquistando quel pezzo di costa per farci su un complesso turistico? Ah, meno male! Così almeno ci sarà qualche posticino di lavoro...!”. No! Si possono comprendere i poveri agricoltori che anni fa vendettero le loro terre costiere (ignari di quanto sarebbe poi successo)...; ma oggi...!

La mania che abbiamo di svendere casa per ottenere qualche briciola in cambio, facendoci “tzeràccus e galliòfus in domu nosta!” (anche se in un primo momento tutto brilli d' auree promesse) costerà cara alle generazioni future. Perché la verità è che non c'è somma di danaro, per quanto alta, che valga la libertà di poter disporre in casa propria... che valga l'umana e adulta (adulta!) soddisfazione che da essa (dalla libertà sovrana) scaturisce.

E il turismo di massa favorisce...? Anche in questo caso credo di no. Non si tratta d'imbastire la sagra dei “no”, ma di ragionare con profondo realismo sulle conseguenze a “largo raggio” (le più importanti!) di un certo andazzo, e capire come dietro alcuni “no”, possano librarsi tanti “sì”. È un dovere che abbiamo verso noi stessi e le generazioni in avvenire.
Il turismo di massa non è sinonimo di maggior guadagno complessivo; è anch'esso altamente inquinante e non proporzionalmente remunerante. Il rischio è di rimanere sfiancati su vari fronti.
Certo: il numero è importante per il fatturato, e va preso in considerazione; ma con misura (non so se esistano studi sul rapporto: quantità/tolleranza ecologica/proventi economici).
In quest'ottica di contenzione sarebbero da contemplare scelte rivolte ad un turismo più parsimonioso, scevre da scriteriati auspici di presenze massive funzionali ad un avido profitto dalle gambe corte. Un turismo quindi moderato nella capacità di offrirci ricchezza, ma certamente più solido in termini di continuità nel tempo. In fin dei conti è questo quel che più importa.

Un aspetto tutto bello è la valorizzazione, da parte di sempre più paesi, del proprio patrimonio ambientale, storico, culturale(incluse sagre, feste, in alcuni casi riesumate o riportate all'originale identità, attraverso rigorose ricerche storiche), artistico, architettonico, urbanistico, archeologico, gastronomico, agro-pastorale, artigianale... Si enumerano tanti imitabili esempi in questo senso. È consolante vedere paesini ben curati e con fiammanti indicazioni (quando si vuole...!): gialle, marroni... ben direzionate, non bucherellate e sequenzialmente distribuite. Tutto ciò favorisce quell'aspetto che in fin dei conti è l'anima di un turismo umanizzante, intelligente , creativo e auto-pubblicizzante: l'interazione tra ricreazione, natura e cultura. Entrambi gli aspetti sono legati alla crescita della persona. Perché anche la ricreazione, in fin dei conti, è tempo di crescita; un peculiare modo di far crescere la propria vita.

C'è di più. L'impegno nel condividere la nostra cultura col turista-ospite, può oltremodo contribuire al “riapproprio identitario”. Perché non si tratta di svendere uno sbiadito folklore da spettacolo (penso ai balli indigeni nelle piazzette di Porto Cervo o robe simili), ma una gioiosa condivisione col visitatore, di ciò che fece e fa parte del nostro vissuto. In questo senso il turismo non sarà un saccheggio mal sopportato per irrisori contentini economici; non sarà nemmeno un fattore di “annacquamento dell'identità”(tipico di certi luoghi dal turismo massivo e caotico, ove tutto è immolato sull'altare del solo profitto), ma: stimolo per la salvaguardia dell'identità, la quale in larga misura dovrà essere il “tocco peculiare” della nostra personalità turistica e sempre in larga misura: la “buona ragione” di quelle donne e uomini che scelgono di ricrearsi in casa nostra.

In tale contesto turistico-culturale, le stesse bellezze naturali acquistano più forma, volgendosi cornice pittorica di un quadro ambientalistico e antropologico. Saranno, se così si può dire, il pretesto favorente un turismo ad ampio respiro, che sa andare oltre il... bel mare. È ovvio che sarà poi il turista a fare la scelta, ma all'interno di una realtà ricreativa che che sappia connetterlo (in qualsiasi punto egli arrivi) al tutto geografico e culturale. Le coste quindi come punto di approdo e di partenza, costellate da esaustive informazioni verso l'ogni dove dell'Isola. Così facevano le nostre Madri e Padri dei Nuraghi, già allora capaci di connettere le coste con l'interno, per favorire il commercio con i popoli interagenti. Quanti esempi moderni dai nostri... Antichi!

Sappiamo che la scoperta delle zone interne è già, in parte, una realtà: passeggiate, escursioni organizzate, sport legati alla montagna,... parchi naturali, il fiorire degli agriturismi. A parziale (e spero progressiva) smentita dell'incipit di questa stessa riflessione, mi è piacevole scorgere, in qualche rivista, pubblicità su tradizionali eventi religiosi (di grande interesse culturale anche per un non cattolico), inseribili in quel turismo spirituale che ha preso forma in questi ultimi trent'anni.
Insomma: tutte iniziative che parlano di una creativa in atto. E non è poca cosa prenderne coscienza, visto che sarà la creatività consorziata la chiave per... “l'invenzione” di posti di lavoro, in un futuro molto prossimo. Sì: un turismo “migliorato e ben reinventato”, offrirebbe molti dignitosi posti di lavoro in più nella nostra Isola.

A prescindere da tali progressi, la nostra mentalità turistica necessita un notevole salto di qualità. I circa quarant'anni di rodaggio pare non ci siano bastati. Sarebbe a mio avviso proficuo che classe politica e cittadini ci dessimo spazi di riflessione per sondarne i perché.
Alcuni passi sono stati dati - come già sopra - e bisogna prenderne positivamente atto. Ma, insisto, ha da maturare una visione d'insieme, la visione del “maestro d'orchestra”, dell'interconnessione, affinché si possa parlare di industria turistica assemblata... affinché l'inversione di energie umane, ecologiche, economiche... confluisca in un equivalente e ben distribuito profitto.

Sorge a questo punto la necessità della messa in atto di una vera e propria “educazione al turismo”. Regione, Provincie e Comuni dovrebbero investirci ampie energie sostenute da sagge strategie. Non so, per esempio, quante scuole alberghiere ci siano nell'Isola e la percentuale di studenti motivati a frequentarle. I nostri giovani dovrebbero essere costantemente stimolati circa tale indirizzo ed aiutati su eventuali iniziative, onde favorire il formarsi di una solida classe imprenditrice autoctona nel settore. Altro che parassitari impieghi nel pubblico! Altro che Industria Chimica e porcherie varie! Sia chiaro: non ce l'ho coll'industria, ma con i velenosi e maleodoranti mostri chimici che tanti denari (nostri) e risorse naturali (come: acqua,...) hanno succhiato e succhiano; inconciliabili con l'altissima vocazione turistica delle nostre oasi.

Inutile nascondersi dietro un dito: industria pesante e servitù militari, oltre a mortificare la nostra sovranità territoriale, creano – lo sappiamo – sacche d'inquinamento dagli effetti devastanti; diciamo pure... mortali, per non nasconderci dietro anestetizzanti eufemismi. Andiamo quindi ben oltre la questione del solo (e chiaramente penalizzato) turismo. Prima o poi dovremo dichiarare nettamente la nostra sovrana decisione circa un problema di così enorme portata, al quale solo noi (sardi) possiamo metter fine. Aspettare che tutta l'acqua bollente si versi dalla pentola, per gridare allo scandalo... poscia, non farebbe onore alla tempistica di un Popolo che vuol dirsi: previdente custode delle proprie colline, pianure, montagne; delle proprie acque e della propria aria... dei propri bambini: della propria... dignità.

Prima di concludere, il pensiero volge di nuovo alle coste, alle spiagge; - e n-ddi torrat! (eh sì! La lingua batte...!) - . Forse, quando impareremo ad esercitare efficace sovranità sulle nostre coste, spiagge, mari, così da favorire un ambiente ricreativo sempre più sano, cordiale e bello “segundu is costuminis nostas”; quando progressivamente andremo migliorando le interazioni ambientali-culturali fra le coste e l'Isola tutta, allora potremo felicemente constatare che le (pur utili) pubblicità costiere su aeroporti e riviste, diverranno un accessorio del tutto secondario.

Ma ci sarà da lavorare con tenacia. Nessuno sarà disposto a concederci e a cederci niente. Nessuno sarà disposto a sottoscrivere nuove regole del gioco! Dovremo... dobbiamo, già ora: fare, migliorare, risanare, reinventare... tutto da noi.
Ignazio Cuncu Piano

venerdì 9 novembre 2012

INDIPENDENZA SARDA E ASCETISMO POLITICO

INDIPENDENZA SARDA E ASCETISMO POLITICO.

Sembrerebbe che sempre più cittadini sarde e sardi - seppure lentamente, in forma non omogenea e in termini politici non ancora esaustivamente compatti e incisivi - stiano... stiamo maturando una coscienza indipendentista. Ne sono contento! Un appropriato e recente revisionismo storico si sta rivelando sempre più capace di raccontarci un trascorso che parla di un Popolo capace di essere protagonista di se stesso. Di conseguenza,“gei fiat ora!”, si va sgretolando - seppure lentamente -  il dicotomico mito che da una parte sentenziava la nostra incapacità a governarci senza l'italico appoggio, e dall'altra conferiva a quello Stato il ruolo di balia prodiga verso l'insufficiente economia isolana, della serie: “ Come facciamo a sopravvivere senza il sostegno dell'Italia? Sotto l'Italia siamo economicamente facilitati/aiutati, soprattutto nei momenti di crisi...”(ditziosus nosus!). Oggi almeno stiamo scoprendo che: non proprio così, forse il contrario.

Ma torniamo al percorso indipendentista, perché di percorso si tratta. Percorso fatto di pensiero ed operatività che siano veri e propri test (per noi stessi) di crescente maturazione autodeterminante.

Esiste al momento attuale un'istanza politica di spessore ove convogliare tale cammino? Mi sembra di no. Il panorama isolano si presenta piuttosto frastagliato. Più conformazioni politiche perseguono la stessa meta con differenti tipologie. Ciò in un primo momento non è un male; può addirittura essere una ricchezza. Ma se il discorso prenderà corpo, si dovrà pian piano convergere ad una sostanziale/fruibile unità di vedute e strategie. Perché, come ovvio, l'unità nazionale si potrà ottenere solo se “insieme”: altra via democratica non c'è.
Non so come si approderà a menzionata unità: se per suffragio maggioritario verso un solo gruppo politico(che ne diverrebbe il punto di riferimento compatto) , attraverso il già citato accordo tra diversi gruppi(indipendentisti) , ...

A prescindere da tutto ciò, il nucleo della questione s'incentra sull'impostazione a monte di “un'azione politica seria e alternativa”. Risulterebbe per niente interessante un'indipendenza intessuta con le scadenti trame di sempre.

La più grande sfida degli attuali Movimenti Indipendentisti, quindi, consisterà nel “non-ricalcare” gli stessi comportamenti da loro criticati, consapevoli che ciò sia molto più difficile di quanto possa, in teoria, sembrare.

Il tutto potrebbe concretarsi soltanto attraverso una “lenta rivoluzione politica interiore”. Non quindi un drastico ribaltamento esterno, ma una nuova presa di coscienza che dovrà essere indispensabilmente personale per poter sortire autentica valenza collettiva.
Purtroppo, che la polis necessiti persone limpide ab intra , è un ritornello così coralmente e pateticamente declamato, che la messa in pratica non risulta poi così - sigh! - importante.

Volendo intessere una sorta di spiritualità laica, si potrebbe osare che solo attraverso un “ascetismo politico” si potrà intraprendere un cammino che si dica... nuovo. Lo stesso termine (politica), indica come il servizio ai cittadini possa essere svolto soltanto attraverso solidi contenuti di fondo.

Ascetismo politico. Ascetismo. Gli “ascetès” (da cui il termine ascetismo), nell'antica Grecia, erano gli atleti, i lottatori. Persone che dovevano esercitare un costante auto-dominio per evitare abiti limitanti il rendimento fisico, e fomentarne altri che lo favorissero. Tutto ciò implicava saggezza di vita, diete oculate, discernimento atto a distinguere “quali e quali atteggiamenti; quali e quali tecniche ginniche...”.

Anche in politica dovrebbe essere così. Soprattutto nel delicato e arduo impegno volto a sensibilizzare un Popolo sulla propria identità di Nazione. Non sarà certo una passeggiata ricreativa il cammino verso l'indipendenza, ma una scalata esigente, impensabile senza quel “ascetès per (il bene de') la polis” di cui sopra.
Alla stessa stregua dei ginnasti ellenici, chi intende perseguire questa meta(l'indipendenza), dovrebbe previamente discernere “quali e quali atteggiamenti(che premettono le strategie)...”, per poi viverli: nella sostanza, nella forma. Poiché non si tratta di cose scontate, che vengono da se',  in automatico.

Quali e quali atteggiamenti allora? Non so: cito alcune cose che mi paiono importanti.

In primo luogo è da evitare il più generico e già menzionato pericolo: ricalcare gli stessi errori di chi si critica. La tendenza a ripetere schemi medesimi, forse inconsciamente assimilati da quello che (per molti sardi) è l'unico panorama di confronto (il panorama italiano) : c'è e si nota.

Eccone poi uno tutto nostro: l'individualismo, il complesso del capo-tribù. Scopro l'acqua calda, lo so. Ma è veramente ora di farcela finita! Senza un impegno serio da parte di ognuno circa quest'atavico handicap, l'indipendenza rimarrà un reiterato e annoiante argomento da salotto!
Prospettive di grande portata sono state gravemente frustrate (anche in tempi recenti) a causa di miopi e futili personalismi, incapaci di interpretare i segni favorevoli del momento storico. I motivi? Fra altri: la mancata - capacità? Volontà? - (da parte di certi leader) di anteporre l'evidente maturazione della coscienza collettiva ai propri meschini posti(cini) di comando. Detto in altri termini: la mancata-democratica decisione di dare spazio alla messa in atto delle capacità altrui, ai naturali e vitali ricambi dirigenziali, considerando questi aspetti come: il miglior risultato del proprio lavoro.

Fa rabbia tutto ciò! Fa rabbia veder crollare progetti intelligenti e ben avviati per motivi stupidi(ni)! Fa rabbia vedere come simili spettacoli compromettano il capillare impegno di molti, disilludendo(cioè perdendo l'assenso di) numerose persone seriamente/validamente... pensanti e operanti. Perché laddove si vuol essere perpetui generali(ni) con tanti soldati(ni), si rimane a corto di cervelli, di personalità mature. E come la fai l'indipendenza senza la... sostanza? No: non ha senso perseguire alte mete con l'esercito di Franceschiello! Non ha senso la figura (infantile) del leader trascinatore di ( infantili e amorfe) masse (masse si fa per dire). Oggi ha senso solo e soltanto il gioco di squadra, il leader buon coordinatore, che sappia incoraggiare le specifiche creatività e confluirle il più possibile in sintesi comunitarie. La leadership diventa così un servizio denso di efficacia anche quando si svolge dietro le quinte! La leadership diviene in questo modo: servizio alla persona, da cui fluisce l'autorità. Autorità: la sola che sappia legittimare il (pur necessario) potere (politico).
Ci vuole tanta nobiltà d'animo, maturità ed equilibrio per essere leader in questo modo. E ci vuole tanta umiltà (amore alla verità, in se stessi prima e negli altri poi). Soltanto sulla base di questa nobiltà, alla luce di tale “ascesi politica”, può diventare interessante giocare il “nuovo gioco dell'indipendenza”, dove tutti giochino da protagonisti, nella semplicità: senza gli artifici che offuscano e appesantiscono l'essenziale.

In parte collegata all'anteriore aspetto, è la nostra litigiosità/invidia/non stima reciproca(anche qui niente di nuovo). Quanti treni ci ha fatto perdere! Puntigliosi, testardi e dispettosi per piccolezze, remissivi e deleganti nelle scelte di ampia portata! Dice la psicologia che a volte evidenziamo stizziti nell'altro i difetti presenti in noi. Una proiezione inconscia dell'insoddisfazione di se stessi. Sarà così anche per noi sardi? Non lo so. Se lo fosse, sarebbe proficuo vedere nei difetti culturali dell'altro/a sardo/a uno stimolo per elaborare i miei, cosciente che tutte le culture hanno punti deboli(non esistono le super-culture). Se ci accettassimo così come siamo, con pazienza e un pizzico d'umorismo per sdrammatizzare, forse riusciremmo ad e elaborare e superare con maggiore serenità..

Passiamo ora ad un dato in se' positivo: eleganza e dignità. Credo fermamente che il popolo sardo si caratterizzi per elegante dignità. Non sempre ne siamo consapevoli; e da lì la latente e deformante tendenza a scimmiottare comportamenti (spesso non i migliori) oltremare. Ma, guarda caso: il camino verso l'indipendenza è questione di eleganza e dignità. Penso a Gandhi, a la sua ferrea signorilità che lasciava razionalmente confusi ed emotivamente attoniti gl' intrusi di Sua Maestà.
Quanto sopra stride con certi reiterativi irrispettosi atteggiamenti, frasi e slogan, a colpi dei quali alcuni vorrebbero far avanzare l'indipendenza. Chi pensa di farla con tali metodi è veramente fuori dal mondo! Urla ed ingiurie(sul Governo italiano, ...)si volgono infeconde e deteriorano la buona causa.

Un'indipendenza picconata da infantili parolacce non verrà mai presa sul serio da nessun/a sardo/a pensante, e da nessun osservatore esterno che voglia prestarle seria considerazione.

La prassi moderna nel cammino indipendente può e deve essere soltanto la “non violenza attiva”(in tutti i suoi aspetti); quella di Gandhi per capirci, di Luther King, di Gesù di Nazareth. Sì: Gesù. Perché la politica è prima di tutto: azione per la persona. L'Uomo di Nazareth è un modello di promozione umana nel condiviso terreno della laicità, anche per chi non ne accolga la scelta di fede.
Ma: attenti! La non violenza, per la sua netta presa di posizione è lama a doppio taglio per chi la professa; se non sei coerente, lo scredito è subitaneo, lampante. A poco serve guarnirsi con frasi del Mahatma, se non immergi cuore, mente e volontà nella mistica non violenta, che include dinamiche totalmente aliene alla politicheria corrente.

Alla prassi non violenta abbinerei l'aspetto culturale nel suo insieme. L'indipendenza è un processo fondamentalmente culturale, al quale va addirittura sottomesso/connesso anche quello economico. Non vogliamo non essere Italia per meri motivi economici (seppure legittimi come concausa) o per astio verso questa Nazione (che va rispettata e apprezzata per le sue molteplici positività), ma, semplicemente, perché siamo una Realtà culturale/storica/etnica altra. Non mettere questi aspetti al primo posto, farebbe dell'indipendentismo un cammino fuorviante, confuso, non chiaro.
Un percorso culturale quindi, che sappia saziare le menti con solidi contenuti; che sappia rendere l'indipendenza un... percorso felicemente motivato. Perché sarà la felicità cosciente il sostegno e al contempo... il prodotto di un processo da farsi non con facce arrabbiate e risentite, ma... a testa alta.

Quanto sopra espresso dovrebbe giocoforza privilegiare l'attenzione all'ambiente della scolarità; dall'asilo ad alcuni spazi universitari, per intenderci. Pur senza privare d'importanza l'impegno su atri fronti, credo – lo reitero – che tale ambito sia da ubicare in corsia preferenziale. Non sto certo insinuando che si debbano indottrinare gli alunni! Ma che sia concesso loro un “diritto” che va al di là dell'argomento in corso: studiare la lingua e la storia del proprio Popolo. Tutto ciò in paritaria coesistenza con le altre materie.

I movimenti indipendentisti dovrebbero prendere molto a cuore tale aspetto, all'unisono. Sì: su questo punto sarebbe cosa buona creare al più presto una proficua collaborazione per fare pressione con tutti i mezzi democratici/civici/non-violenti, ... a disposizione. Per un diritto che va - mi preme riaffermare - al di là della specifica scelta indipendentista.

Proficua collaborazione... si è appena detto. La mente si sposta sulle cosiddette alleanze politiche (o meglio: collaborazione con altre entità partitiche per un preciso – non generico – obiettivo comune). Un aspetto questo che richiede oculatezza estrema, in cui i principi non negoziabili giocano un alto ruolo. L'indipendenza si disperderà in vari rivoli qualora queste (alleanze) siano indebite. Da non confondere alleanza con dialogo. Dialogo con tutti; accordi solo con chi persegue obiettivi compatibili un'indipendenza a tutto tondo, genuina, non annacquata. Escluse a priori quindi, le tendenziose unioni(di potere e non solo) che pretendano coniugare capra e cavoli...tenere i piedi su due staffe: devastanti, deludenti e non oneste.

Bene: mi fermo qui. Sono ben lontano dall'aver detto tutto e in modo esaustivo. Forse, a ben pensarci, non è nemmeno importante stilare liste comportamentali complete, visto che l'essenziale è che tutto sgorghi dal profondo di una “ mistica (laica o non) del servizio”.
                                                                                           Ignazio Cuncu Piano.

domenica 4 novembre 2012

UN'ISOLA DI CONSUMATORI?

Qualche mese fa sono stato ad Alba (Cuneo) con persone amiche. Osservavo come la campagna circostante, oltre che dai tipici vigneti, fosse in buona parte ricoperta da noccioleti. Una persona del posto ci ha spiegato. Si tratta di colture piuttosto recenti. In pratica un “ripiego”(il termine non è il più adatto) di molti giovani a causa della disoccupazione. Così, i terreni incolti dei padri sono stati riabilitati a fonte di sostentamento. Tra l'altro, a quanto pare: le nocciole rendono.
Un ritorno a ciò che fu abbandonato per l'industria. Un ritorno, tutto sommato, non traumatico. Un ritorno che, in maniera silenziosa ma capillare, sta avvenendo in più luoghi. Col mio confratello(sardo anche lui)ci siamo guardati, intuendo che pensavamo la stessa cosa: “ E da noi, con tanti disoccupati, non si potrebbe... ?”. Il ritorno alla campagna, anche in Sardegna, non è certo questione di bucolico romanticismo; nemmeno dev'essere frutto di sola necessità economica(che può esserne il legittimo detonatore), bensì: autentico riapproprio identitario. È noto a tutti come nel secondo dopoguerra, la scriteriata imposizione di un'industria massiva, non sintonica col territorio, ampiamente dispendiosa (impiego  laborale minimo  proporzionato alla popolazione. Insomma: fu, è più il danno che il guadagno) e prematuramente fallimentare, abbia inutilmente sconvolto la nostra cultura agro-pastorale-artigianale, creando alterazioni socio-economiche di grave portata. Ancora ne paghiamo le conseguenze sui due fronti, visto che per certi aspetti stiamo perdendo capra e cavoli (industria e agricoltura).
Non è tutta responsabilità dell'industria; altre istanze (la Comunità Europea, verbigrazia) hanno fatto(e fanno) il loro gioco. Ricordo in proposito quando negli anni '70 mio padre(agricoltore) parlava del famoso “premio”(?!!) per chi estirpasse le proprie vigne. E così abbiamo perso circa il 70% del patrimonio viticolo! Eppoi è arrivato il turno dei carciofi(eravamo i maggiori produttori tra i '70 e gli '80), delle barbabietole, del grano, del latte, ...

Non è nemmeno tutta colpa degli altri. Per certi aspetti siamo stati noi a lasciarci fare o a non voler più fare. Alcune Regioni, per esempio, non hanno accettato così docilmente lo sfoltimento delle colture tradizionali; o per lo meno, hanno preteso ulteriori incentivi per dar luogo a redditizie alternative.

Non è colpa nemmeno del mare: “Il mare penalizza”. Ci è stato sempre detto: “ Aumenta i costi di esportazione...”. C'è del vero in tutto ciò. Ma: attenzione! Come mai il mare non impedisce la massiccia importazione di ogni sorta di prodotti? Come mai i famigerati costi addizionali di trasporto non incidono sul prezzo addirittura inferiore agli equivalenti prodotti locali? Un risparmio al minuto che, paradossalmente, impoverisce il complessivo assetto economico dell'Isola, favorendo una situazione di stallo. Un agricoltore amico, di un paese ad alta vocazione orticola, fu lapidario: “La concorrenza del mercato oltremare ci spiazza!”. Non è quindi il mare la causa dei nostri problemi, ma i percorsi di mercato tracciati ad arbitrio di alcuni per pilotarne i profitti.
Influisce non poco la nostra ritrosia a consorziarci. Penso ai pastori: quanto meglio si potrebbe piazzare il nostro buon latte e i suoi ottimi prodotti (in Sardegna ed oltre) se ci si unisse in solide cooperative di vendita capaci di trattare direttamente con le piazze, bypassando grossisti o imprenditori sanguisuga? Qualcosa in questo senso, pian pianino si sta muovendo. Sarà questione di continuare e non demordere: abbiamo un'alta qualità che vale la pena dichiarare e difendere, con aderenti nomenclature d'origine! Quindi: niente fuorvianti/sovrapposti “Romani Pecorini ruba-meriti(e danari!)” o quant'altro. In questo caso sarebbe più che opportuno optare per la battaglia (vinta) dei Friulani, che hano ottenuto, per i propri prodotti, il marchio "Made in Friuli" ! 

Al momento la nostra realtà non è quindi tra le migliori. Suddetti peripli economici, purtroppo, hanno fatto di noi un'Isola di Consumatori! Consumiamo prodotti che potremmo coltivare nel nostro privilegiato clima: ammortizzando costi, gustando sapori, favorendo dignitoso benessere nel territorio, limitando l'inquinamento del pianeta. Le nostre campagne invece languiscono ampiamente incolte, spesso ridotte a pattume; umiliate nella loro generosa capacità di offrirci bontà nostrane a portata di mano.

In tutti i modi, è da ammettere che la minaccia peggiore (per l'agricoltura), è che siamo diventati troppo... comodi! E qui, più o meno, tutto il mondo è paese! Ma, ahinoi, la brutta piega ci si ritorce contro in tutto l'orbe, perché schifare la terra equivale a sputare nel piatto in cui mangi!
Il tema è complesso. Ma il “ritorno alla terra” è una questione da affrontare seriamente, a livello planetario, in un futuro più che prossimo. Un passo difficile ma dovuto e in parte, come già sopra, in atto. In valli montane, pianure, possiamo incontrare giovani vocati all'allevamento e alle colture, abbinando spesso le sagge usanze dei bisnonni ad attuali(e spesso inedite) tecniche. Scelte coraggiose, in molti casi avviate da zero. Scelte che non sempre rispondono a necessità economiche, ma al desiderio di ritrovare un nuovo stile di vita: in armonia con l'ambiente, con meno pretese economiche, prescindente da costose cianfrusaglie, densa di soddisfazioni autentiche.
Anche nell'Isola si possono contemplare felici iniziative su questa linea: aziende agricole ben amministrate, coltivazioni biologiche, sperimentazioni innovative, filiere corte, allevamenti genuini, agriturismi ben curati,... paesi che s'impegnano a valorizzare meglio i prodotti (anche attraverso sagre, feste, pagine internet),... La speranza è che queste cose belle e buone progrediscano, onde creare una positività strutturale. Per il momento ci sono ancora troppi... vuoti, in mezzo.
Alcuni paesi, per esempio, hanno dismesso con certa leggerezza la vocazione campestre. I motivi possono essere plausibili: agricoltori e allevatori sono penalizzati. Penso alla disparità tra i prezzi dei macchinari, concimi, mangimi e quelli dei prodotti... Insomma: tanto sacrificio e poco tornaconto(chi non dipende direttamente “dalla terra”, forse non può capire del tutto...).
Ha inciso anche il parziale ricambio generazionale: molti figli si sono orientati verso altre scelte. Esistono poi cause locali, che variano da paese a paese. Non sarebbe male che ogni comunità si desse occasioni per rifletterci su.
E l'industria? Va del tutto esorcizzata? No. In Sardegna non è fallita l'industria, ma: l'industria così concepita. La mastodontica Chimica di cui sopra: inconciliabile con la realtà nostrana. Un pugno nell'occhio per il delicatissimo equilibrio ecologico dell'Isola! - “Facile dirlo col senno del poi!” -   Non è proprio così. Ai tempi, più voci chiamarono in causa l'opinione pubblica, la classe politica, suggerendo alternative contenute, più simbiotiche, all'insegna della novità nella continuità. Voci inascoltate! L'affanno per italianizzare Sandalios al miglior stile “copia-incolla” , il profitto di pochi - politica complice -, ebbero la meglio.

In tutti i modi, ciò che conta è che oggi un cambiamento di rotta è possibile! Gli esempi ci sono. I noccioleti albesi citati in proemio. I tanti orti che stanno nascendo nelle periferie cittadine. Penso alla regione della Ruhr (Germania) che sta riconvertendo la sua trascorsa dedizione all'industria mineraria...
Miniere! Il pensiero volge alla cara regione del Sulcis, alla tradizione mineraria che i giovani vogliono mantenere come prospettiva di lavoro. La miniera per loro è una realtà radicata, tramandata da padre in figlio. D'altro canto però, non si può non osservare un Sulcis ove il lavoro agricolo sia ampiamente sguarnito. Le cause sono varie e complesse, dalle radici profonde. Potremmo addirittura risalire alle Compagnie inglesi che tra il XIX e XX secolo, impossessandosi di parte del territorio violentarono la vocazione agro-pastorale di queste genti obbligandole al massacrante ed insalubre lavoro del sottosuolo, pagandole con buoni da consumare in empori delle Compagnie medesime, creando apposite differenze sociali, facendo in modo che i bambini non avessero altra prospettiva se non la miniera, favorendo una mentalità schiavizzante, a senso unico.

Torniamo al cambiamento di rotta. Sarà possibile nell'Isola? Sì. Si può e si deve. Così come siamo, non si andrà avanti per molto. Come si cambia? Con creatività, rischiando di persona, convincendoci sempre più che i nostri interessi interessano solo a... noi(e quindi - noi -  dobbiamo difenderli, rimboccandoci - noi! - le maniche, sapendo che dall'alto, cioè dalla politica, in questo momento storico, c'è poco-niente da aspettarsi), mettendo da parte quell'apatica “comodità delegante”, sulla quale abbiamo imparato a piangere abbastanza... comodamente. 
                                                                                                        (Ignazio Cuncu Piano) 

mercoledì 3 ottobre 2012

CALENDARIO MAYA, LA FINE DEL MONDO E LA FEDE CATTOLICA

PROEMIO.

Pare che fra poco, a dicembre (il 21 se non erro), ci sarà la fine del mondo: " Fine dei nostri problemi! ". Diconno alcuni con sardonico unorismo! 
Punto di riferimento del fatidico evento sarebbe un calendario Maya. Anche se, a detta degli studiosi, i calcoli astrali di quest'affascinante civiltà amerinda non contemplano nessun collasso cosmico, non viene male cogliere l'occasione per sondare un po' l'argomento.
Più in là del fatto specifico, sappiamo che lungo la storia non sono mancati pseudo-profeti (puntualmente smentiti) che hanno pronosticato il catastrofico epilogo di questo eone. 
Anche la fede cattolica ne parla. Ma lo fa accentuandone gli aspetti della speranza. Perché, nella realtà della fede, la fine del mondo non ha niente a che vedere con la... fine del mondo.
Le seguenti righe vogliono offrire una semplice ed incompleta riflessione sulla parusia: il momento culminante dell'economia della salvezza, cui centro propulsore è l'energia salvifica sprigionata  dalla morte e risurrezione di Gesù.

RISORTI IN CRISTO, PENETRATI DALLA MISERICORDIA(prima parte)

Se Cristo non fosse risorto sarebbe vana sia la nostra predicazione che la vostra fede. Ora invece, Cristo è r[isorto] dai morti, primizia di coloro che sono morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura: la morte è stata ingoiata dalla vittoria. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigatevi sempre nell'opera del Signore...” (1Cor15,14.20.22.54.57-58). È proprio così:la fede ha senso perché Cristo è r e noi con Lui. Nel Battesimo infatti siamo resi “ Suoi consorti”: nella gioia e nel dolore, nella morte e r(cf.CCC1,1005). La Chiesa siamo già una famiglia di r:[nel Battesimo siamo] morti alla vera morte(il potere del peccato)e rinati/incorporati alla vera Vita(Cristo). Sì: il Signore è talmente innamorato di noi da volerci regalare molto più che la vita biologica: la Sua stessa vita divina: la vita indistruttibile. La certezza di trovarci dentro la r,già molto chiara nelle prime comunità cristiane, ci apre orizzonti di sola consolazione e dà senso al presente(“La vostra fatica non è vana nel Signore”. 1Cor15,58). La fede è quindi un amalgama di presente-futuro. Potremmo definirla un “lungo presente”: la Vita Eterna ci avvolge e il male è già vinto(seppure ancora scalci di brutto!). La piena manifestazione di ciò si realizzerà alla culminazione di questo “presente”: la pienezza del Regno di Dio. Allora anche il nostro corpo risveglierà a nuova vita(non pari all'attuale), traboccante di Lui e immortale(cf.CCC,988-996). Mi riferisco alla r finale di cui sopra l'Apostolo: la piena realizzazione della Vita. E' molto bello pensare come il Signore,con questo gesto,farà giustizia alla dignità del corpo, che con l'anima è sostanziale alla persona(cf.Ivi,362-368). Sarà resa giustizia in particolare ai corpi innocenti avviliti da ogni morte abusata:straziati dall'aborto, dalla guerra, dalla fame, dalla malattia. Il Papa osserva in proposito come persino il pensiero agnostico2 possa invocare - seppure indirettamente e senza la speranza che ciò avvenga - una sorta di risurrezione, come unica espressione di giustizia capace di annientare la sofferenza(cfr.Spe Salvi,42. La fede sa che questa “giustizia”3 non è una remota ipotesi filosofica(cf.Ivi,43).Come e quando accadrà tutto ciò? Non certo nelle date fissate dai bene informati in giro per la storia(cf.Lc17,23;21,8)! Sulla fine del mondo si fa tanta futile letteratura, che arricchisce alcuni e confonde altri. Una cosa è certa: niente reboanti preludi da guerre stellari o robe simili(a tutt'altro mira la simbologia espressa da questi turbamenti planetari nella letteratura apocalittica biblica). Il tutto avrà luogo nel mezzo della quotidianità(cf.Mt24,36-44) . Niente sconvolgimenti cosmici quindi. Il vero sconvolgimento sarà il pieno compimento della giustificazione nell'Amore, iniziata più di 2000 anni fa, nella morte e risurrezione di Cristo. E la sola rottura che vivremo alla fine del mondo sarà soltanto quella definitiva fra “la vita secondo la carne[la logica dell'egoismo] e la vita secondo lo spirito[la logica del servizio verso gli altri, specie se più deboli]”(Victor Sion, L'abbandono a Dio, Gribaudi: 1995, p. 55).

Assisteremo, inebriati di Gioia, al radicale e definitivo rovesciamento annunciato dal Magnificat("ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affmati, ha rimandato i ricchi a mani vuote" - Lc1,51-53), operato dalla Dolcezza Divina con semplicità e naturalità(cf. Ivi). Sarà un'esperienza intensamente spirituale, quindi anche pienamente umana. Solo Dio ne conosce il momento: nessun altro(cf.Gaudium et spes,39,1;CCC,997-1001). Per chi vive nel Signore, fiducioso“come bimbo...in braccio a sua Madre”(Sal130,2), ignorarne tempi e modi rivela addirittura effetti(psichici/spirituali)liberanti. Perdersi in date e cose del genere è pertanto insano e inutile. Quel che conta è riconoscere e accogliere il Regno(Gesù) come una condizione del presente(cf.Lc17,21); perché, in Cristo, in fin dei conti, non c'è più distanza tra Escatologia e Tempo.

Anche i termini “fine del mondo” son da essere rettamente intesi. Non si tratta di annichilimento del cosmo, ma dell'esatto contrario(cf.CCC,1046-1047). Il Signore non intende metter fine a ciò che creò e ama quale:“Cosa molto buona”(Gen1,31;cf.Sap11,24). Non sarà quindi il creato ad aver fine, ma la condizione di pattume in cui la nostra voracità tende a ridurlo, espropriandone l'identità di dono goduto nella gratitudine:“La creazione[...]nutre la speranza(certezza)di essere liberata dalla schiavitù della corruzione”(Rm8,20-21). Tutto l'universo entrerà definitivamente nella Vita Piena,nel suo “Centro di Gravità Permanente(Gesù)”, in ritrovata-nuova armonia con Dio e con ogni donna e uomo.

Io so che il mio Difensore è vivo, e che parlerà per ultimo, si ergerà sulla polvere! Io mi porrò in piedi e nella mia carne vedrò Dio. Io Lo vedrò, io stesso. Sarà lui che vedrò, e non un altro: nell'attesa,il mio cuore non si contiene dalla gioia!” (cfr.Gb19,25-27)


RISORTI IN CRISTO, PENETRATI DALLA MISERICORDIA(seconda parte).

La risurrezione dei corpi, come ricorda il Catechismo,è“intimamente associata alla parusia”(1001): la venuta gloriosa e definitiva di Gesù sulla terra, alla pienezza dei tempi. L'umanità intera cammina verso quell'evento e tutti, buoni e...cattivi, risorgeranno(cf.At24,15). Qualcuno deluso? Non prima di precisare che la gioia di quel momento non consisterà nel mero risveglio del corpo, ma nell'essere definitivamente trasformati nella vita vera e piena: l'Amore Misericordioso, cioè lo stesso Signore. Non sarà un fatto scontato, ma frutto delle scelte realizzate in questa vita. Scelte che quel “giorno” saranno rese manifeste. Questa l'essenza del Giudizio Universale. Un bilancio a porte aperte dove tutto di tutti verrà alla luce; virtù e nefandezze della storia messe al vaglio,il bene separato dal male e quest'ultimo distrutto del tutto(cf.CCC,1040). Non avremo giudici poiché ognuno saprà valutare se stesso. Penetrati dalla Luce di Dio vedremo con chiarezza chi fummo, senza fronzoli(cf.Ivi,103;Spe salvi,47). Sarà un momento di gioia e, presumibilmente,di dolore. Gioia dei salvati(e di Dio per loro);dolore dei dannati(e di Dio per loro). Per fortuna[il Signore]ci ama troppo;così nel Vangelo di Matteo25,31-46(invito il lettore ad aprire il testo) anticipa i temi circa lo “scrutinio finale”. Sarà un esame tutto sulla misericordia:“Ho avuto fame, sete, forestiero, nudo,malato, carcerato...depresso, handicappato,disoccupato,alunno con problemi, sieropositivo,schiavo,tossico, solo, ragazza madre, giovane in crisi,senzatetto, anziano, bambino, prostituto/a, profugo...Cos'hai fatto per Me?Perché io,Gesù,ero in ognuno/a di loro”. Le situazioni elencate ne simbolizzano tante altre a portata del nostro quotidiano, di fronte alle quali siamo invitati a dare risposte amorevoli ed efficaci fin dove possiamo: Dio non ci chiede di più. Da non dimenticare una rilevante opera di misericordia: amare e nutrire la propria vita, ché sia goduta come dono per me e per chi mi sta vicino. Auguro di cuore al lettore, a tutti e a me stesso, poter udire quel:“Venite benedetti dal Padre mio”. Sì,benedetti. Ed il merito sarà loro,dei miseri, ai quali dovremo ringraziare e “chieder venia per aver dovuto servirli”4. E benedette le donne e gli uomini che pur non conoscendo Dio lo amarono, senza saperlo, nei Suoi figli più deboli(“Quando[...]lo avete fatto a Me”- Mt25,37-40). Anche loro? Sì, anche loro. Non sarà quindi il certificato di battesimo il salvacondotto per il Regno, ma quella carità più sopra espressa. Vorremmo fermarci qui, al versetto 40. Ma non si può ignorare quanto segue:“Lontano da Me, maledetti”(Ivi 25,41a). Maledetto: chi visse “banchettando lautamente”(Lc16,19),indifferente al gemito degli sfortunati.“Maledetti...”Una frase che Gesù dirà ugualmente senza rancore, nel dolore e senza... maledire. Come potrebbe? Al“maledetti”infatti, non segue:“Dal Padre mio”(Mt25,41). Dio non sa e non vuol maledire. L'uomo maledice se stesso quando si chiude nel proprio egoismo. Così prospettato il Giudizio non può essere fonte di terrore(non c'è spazio per la paura nella misericordia di Dio), ma di “responsabilità per la nostra vita”(Spe salvi,41),e soprattutto:“Luogo di apprendimento di esercizio della speranza”(Ivi,III). Speranza(cioè certezza) che: chi “perde” la propria vita in Gesù, la trova per sempre (cf.Mc8,35); speranza(cioè certezza)che il Signore saprà mutare in gaudio ogni sofferenza manifesta e nascosta, ogni legittima necessità negata dall'esistenza; speranza(cioè certezza) che le prepotenze, gli intrighi ed abusi della storia non avranno l'ultima parola.

Il Signore[...]preparerà[...]un banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Eliminerà la morte per sempre. Asciugherà le lacrime su ogni volto”. (Is25,6.8)

                                                                                                          (Ignazio Cuncu Piano)

1Catechismo della Chiesa Cattolica;
2In riferimento al filosofo tedesco Theodor W. Adorno;
3Nella Bibbia, questo termine indica la fedeltà di Dio alla sua compassione per noi.
4San Vincenzo de' Paoli.