venerdì 31 ottobre 2014

OPERAI E FORZE DELL'ORDINE

Mercoledì scorso, circa 600 operai hanno manifestato a Roma: “Perché la ThyssenKrupp vuole licenziare 537 dipendenti delle acciaierie di Terni” (Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre, 2014). Una protesta più che legittima. Legittima pure la rabbia degli operai, alimentata dalla snervante incertezza sull'immediato futuro lavorativo, sulla vivenza delle proprie famiglie.

Non è esagerato affermare che in un certo senso questi operai, intrappolati nell'attuale momento storico, stiano vivendo la tipica preoccupazione del povero, ossia la non gradevole tensione del “vivere alla giornata”, senza la certezza del domani (inteso come: giorno successivo).

Alla manifestazione, chiaramente, erano presenti le forze dell'ordine, per garantire dovuta contenzione. Spesso in circostanze come queste, soprattutto quando la pazienza di chi protesta è al limite (per i motivi più sopra sintetizzati), s'innestano azioni che vanno oltre; e la polizia è giocoforza costretta ad intervenire in modo proporzionato o sproporzionato talvolta.

Anche mercoledì scorso pare sia accaduto qualcosa di simile.

La reazioni dei sindacati e del Parlamento è stata di sdegno contro le esagerazioni degli uomini in divisa, di dolore e solidarietà verso i manifestanti malmenati. Mah!!   Il "mah" - mi preme chiarire - non è rivolto ai feriti (operai, agenti), ma ai sindacati e al Parlamento.

Non rientra infatti nelle mie intenzioni trattare sull'eventuale responsabilità della polizia, degli operai, ne' prendere le difese di questi o quelli. E per sventare dubbi: ho partecipato anch'io a manifestazioni di popolo in luoghi (non in Italia) ove la polizia è ancora strutturalmete violenta, ufficiosamente autorizzata a reprimere fino alle più estreme conseguenze.

In questa riflessione vorrei semplicemente sottolineare un altro aspetto del dramma in questione, quello più preoccupante a mio avviso: l'enorme ipocrisia di politicanti inetti, capaci di stracciarsi le vesti - con ridicola e mal mimata fermezza – solo e solamente per eventuali abusi delle forze di polizia, riducendo un dramma così profondo e complesso (quello della classe operaia ormai in via di estinzione!), al solo gesto di un gruppo di altri figli del popolo (gli agenti) che svolgono un lavoro mal pagato in proporzione ai rischi in esso implicati.

Ci vuole una buona dose di meschinità, non c'è che dire! Meschinità sotto la quale si cela la trilogia del: non so, non posso, non voglio. Abbiamo infatti una classe politica che non sa fare, perché composta in ampia parte da individui giunti alla seggiola più per faccia tosta e accozzi che per capacità. Abbiamo una classe politica che non può fare, perché asservita ai diktat delle eminenze grigie che pilotano le nefaste leggi dell'economia (e della politica). Abbiamo una classe politica che non vuol fare, per evitare di essere punita severamente dalle grigie eminenze del mercato e per non perdere quei contentini (privilegi) concessi da queste ultime, a patto che se ne stia a cuccia e inerte!

Questa è la ciurma che si permette di sentenziare dall'alto (chi si guadagna il pane stando in prima linea) e di esprimere patetiche solidarietà, mantenendo però dovuta distanza da piazze e strade: unici luoghi dove sempre più persone son ridotte ad esprimere il loro disagio. Perché – vale la pena ribadirlo – nelle piazze e nelle strade i veri responsabili di certe derive, non ci sono mai. Una pusillanime assenza che dà vita ad uno dei più tristi paradossi sociali: la rabbia degenera in una guerra tra poveri: operai e agenti delle forze dell'ordine, per esempio. Cosicché questi ultimi (in gran parte giovani) diventano, in un certo senso, il volto colpevole di defezioni altrui.

È doveroso - per quanto difficile al momento dei fatti -  non cadere in questo nefasto paradosso, che ha come unico risultato l'affievolimento della coesione sociale: humus necessario per far fronte civilmente e democraticamente alle sottili ma potenziate violenze perpetrate da ben altri ambiti.  

Persino Pier Paolo Pasolini, commentando le cruente manifesazioni degli anni '60/ '70, ebbe la lucidezza e l'onestà di dichiarare come i (peraltro non teneri) celerini non fossero minimamente la parte da avversare, perché figli delle classi sociali più affamate: uomini che  riuscirono forse a migliorare il salario un po' più dei propri padri; ma al prezzo di un lavoro altamente rischioso.

Quanto detto finora, ovviamente, non vuole eludere responsabilità oggettive - quando ve ne siano - da parte di manifestanti e  forze dell'ordine.

Nemmeno desidero mettere nello stesso mazzo tutti i politici. Ci sono tanti uomini e donne che onorano il nobile servizim alla polis con impegno, onestà, diligenza e sensibilità.

Ed ora una proposta salutare per sedicenti servitori dello Stato!

Durante una prossima manifestazione di operai con nervi a pezzi per ovvie ragioni, cari politici al servizio dei cittadini, non mandate i ragazzi delle forze dell'ordine. Sono troppo giovani: possono innervosirsi quindi commettere imprudenze. Andateci voi! Posizionatevi di fronte ai manifestanti. Dialogate con loro: viso a viso. Spiegate cosa realmente potete e non potete fare circa i drammi che li tormentano. Insomma: fate opera di contenzione, rassenerateli. Di certo saprete offrire parole persuasive, più di poliziotti, carabinieri e finanzieri.

Fate quest'esperienza, almeno per una volta! Eppoi ne riparliamo.

                                                                                  Ignazio Cuncu Piano





domenica 26 ottobre 2014

PARLARE CON DIO IN LINGUA SARDA.

Accolgo con gioia e soddisfazione la notizia sull'Unione Sarda di oggi: "... Lingua sarda nel rito: prime aperture". Non c'è dubbio che questa saggia decisione dei Vescovi sia una risposta - oltre che al buon senso - all'accorato anelo non solo di moltissimi fedeli, ma anche di coloro che pur non avendo fatto una scelta di fede, sanno leggere nell'enorme serbatorio sacro "in limba", un non indifferente Patrimonio dell'Umanità. Una ricchezza che beneficia i sardi e l'Umanità intera quindi (la quale attinge unicamente dalla cultura di ogni popolo di cui è composta).

Se c'era qualcuno - soprattutto negli ambiti clericali - che serbava dei dubbi circa l'idoneità della lingua (sarda) ad esprimere concetti liturgici, teologici, o formule sacramentali, questa notizia reca una smentita finale. Si è trattato di un dubbio tanto dannoso quanto sciocco, del tutto anticulturale, che ha arrecato solo danni e ritardi! Perché - siamo seri! - se si può esprimere una formula sacramentale in cinese, in malayalam, in lingua curda o kirghisa, in furlan o in kirundi: qualcuno saprebbe spiegarci perché in lingua sarda no? Del resto: le nostre Genti hanno parlato in sardo - con Dio - per circa duemila anni. E Dio le ha sempre ascoltate e... capite!

Mi sia concesso ora un amabile rimprovero ai nostri Presuli: "Ben svegliati cari Vescovi sardi! Perché - siate sinceri! - finora non avete mai dato peso all'importanza della liturgia in lingua madre, prestando disattento ascolto ai tanti del Popolo di Dio che ve lo chiedevano. Ora, siccome lo auspica il Papa...!". Ad ogni modo: meglio tardi che mai.

Questa "estetica" decisione dei Vescovi, porta anche una sfumatura di dovuto ripristino, di azione riparatrice. Alcuni - molti? - preti infatti, interpretando malamente il Vatcano II (che da tutt'altra parte andava), si arrogarono il diritto di eliminare, dall'oggi al domani e senza consultare la comunità dei fedeli (!), preziosi riti in sardo, densi di spiritualità millenaria tramandataci dai nostri progenitori nella fede. Come fu possibile che questi capolavori della devozione siano stati considerati, di punto in bianco, inadatti alla trasmissine di così alta spiritualità. La risposta c'è, ed è alquanto superficiale: stava prendendo piede la moda dell'italiano, la moda del... moderno. Moderno: vaga chimera; termine ambiguo e pericoloso, di fronte al quale, tutti i termini di contrappasso (come, ad esempio: antico) dovevano tramutarsi, per forza, in mali da estirpare sì o sì.

Ma sembra che Dio se ne infischi degli imposti pseudo-concetti di modernità! E anche Maria Santissima. E così, quando la Madre di Dio apparve a Bernadette Soubirous (1858), non le parlò in "francese moderno", ma in occitano. E se la veggente fosse vissuta ad Uras, a Nuxis, a Mandas, a Bitti, a Tissi, al Ales, a Monastir, a Nuragus, a Sestu, a Soleminis o a Sinnai, la Vergine Maria le avrebbe parlato in sardo (e non in altra lingua teologicamente più affine), per manifestarle niente meno che la personale  approvazione circa un dogma di fede.

Eppoi: l'animo innamorato di Dio, è capace di conformare, di forgiare e cesellare... "nuovo linguaggio dentro il linguaggio": modificando termini e creandone di nuovi, così da rendere la lingua stessa più malleabile nell'interpretazione ed espressione delle sublimi manifestazioni che lo Spirito Santo sa suscitare nel dialogo creativo tra l'anima e Dio. È quello che succede, per esempio, nei Goccius, ove troviamo termini specifici al sacro, non usati nel parlare corrente; è quello che succede anche nella lingua italiana e in altre lingue. Chi conosce a fondo l'inglese, per esempio, sa che nel leggere la bibbia o un libro di mistica cristiana, potrà trovare innumerevoli vocaboli sconosciuti al linguaggio ordinario, sia per la loro arcaicità, sia per la specificità di ciò che esprimono.

L'esperienza degli autori sacri è emblematica al riguardo: pensiamo ad esempio all'evangelita Giovanni, che spesso ha spesso esposto la fraseologia greca al limite della grammatica, per esprimere con più aderenza possibile l'inesprimibile bellezza del Messaggio divino. O alle sgrammaticature e spesso sgraziature di alcuni versetti biblici, attraverso i quali, paradossalmente, Dio ci condivide aspetti - di per se' indicibili - di se stesso.

Nella stessa linea: pensiamo all'Antico Testamento nel suo insieme. Fu redatto in una lingua essenziale, ricca di non troppi vocaboli, tendenzialmente basata sul visibile, finalizzata a descrivere un ambito agropastorale, quindi poco affine ad esprimere l'eterno. Eppure Dio face la sua strana scelta; pur potendo disporre già da allora - nello stesso bacino del Mediterraneo e nella geografia medio-orientale - di lingue più raffinate ed evolute!

Riassumendo: non solo la lingua sarda è idonea al sacro, ma attraverso il compendio dei testi sacri auspicata dai nostri Presuli (speriamo che si faccia davvero!), la lingua sarda-sacra ci restituirà alla memoria innumerevoli-poco noti-espressivi vocaboli. C'è di più: la ripresa della preghiera in sardo, contribuirà, coe già sopra, alla nascita di ulteriori termini, che in modo sempre più vivo e attuale, sapranno esprimere la progressiva maturazione della comunità dei credenti all'interno dell'inesauribile bellezza delle cose di Dio.

Questa nuova avventura "nella fede", ci riavvicinerà, lo auguro, alla genuinità del nostro essere Chiesa Cattolica: un unico messaggio di salvezza inculturato nello specifico humus de tutti gli uomini: " Di ogni tribù, lingua, popolo e nazione" (Apocalisse 5, 9b).
                                                              
                                                                            Ignazio cuncu Piano.