venerdì 21 settembre 2012

I VUOTI FELICI DELLA MEMORIA DEI SARDI

Popoli come il nostro, reduci da lunghe e selvagge colonizzazioni, possiedono di solito una conoscenza offuscata del loro passato. Gli oppressori ebbero tutti gli interessi per manipolare il retaggio degli oppressi, sia per ribassarne l'autostima che per dare all'oppressione stessa una facciata civilizzatrice. Gli storici sono spesso caduti in questa trappola. Ci si illustra, per esempio, l'espansione dell'Impero Romano in chiave di civiltà(cosa in parte vera). Ma poco ci si sofferma sul fatto che quella Civiltà ne ha spesso frustrato delle Altre con i metodi della violenza.

Sorgono a tal punto una serie di lecite e per niente inutili domande: come sarebbe, verbigrazia, la Sardegna attuale se i Romani non avessero posto fine all'epopea Nuragica ... se i Catalano-Aragonesi non avessero troncato l'avveniristica avventura Giudicale? e ancora: come sarebbe l'America Latina di oggi senza i noti saccheggi di Civiltà e di tesori? quale il tenore sociale/politico/economico/ dell'America del Sud se la felice esperienza delle Riduzioni Gesuitiche non fosse stata brutalmente stroncata dagli intrighi massonici? e i Daci? e gli Indiani dell'America del Nord? e le tante altre Civiltà sparite per cause analoghe?
Oggi non siamo da meno! Tra il XIX e XX secolo, sull'ara della vorace Civiltà Occidentale, sono state sterminate più di cento etnie; altre ridotte all'ebetismo culturale. Un pernicioso boomerang per noi umani evoluti (!) che insieme a quelle “Sagge Civiltà Tribali” abbiamo quasi perso il midollare assetto dell' esistere : il rispetto verso gli altri e il simbiotico rapporto col Pianeta.

Certo: la storia non si basa sulle ipotesi, su ciò che non fu. Ma riflettere su quanto sopra, come già espresso, non è un vano esercizio. Gli ampi spazi felici del proprio od altrui passato(inclusi quelli interrotti bruscamente) potrebbero, per esempio far prender coscienza che se allora si è stati capaci di costruire stili di vita dignitosi, potenzialmente lo si è anche oggi. Non riesumando remote epopee (pretesa assurda), ma cogliendone i genuini atteggiamenti di fondo(meno quelli di matrice violenta) che potrebbero arricchire il presente. Potremmo verbigrazia riscattare come il centro propulsore di una civiltà sia la volontà (rettamente intesa), il desiderio (e praktiké) di costruire cose sane/buone/belle/utili/piacevoli: per il proprio gruppo, per tutti(la civiltà di un popolo va sempre a beneficio dell'intera umanità ).

Ma torniamo in Sardegna. Quanto conosciamo della nostra storia? In genere poco niente. E quel poco... ben confuso. Non si tratta di esagerare: è semplicemente così. Abbiamo forse una qualche infarinatura sulla Civiltà Nuragica, la dominazione fenicia (che dominazione non fu), i Cartaginesi, la dominazione romana, quella spagnola. Alcuni addirittura citano quest'ultima come se si fosse trattato di un gemellaggio (!) così ben riuscito che ancor oggi se andiamo in Spagna, per farci capire basta parlare in sardo(ita fregulada manna!). Poi i (dominatori) Piemontesi col Regno di Sardegna, dal cui prolungamento nacque l'Italia; quindi a noi il vanto...(atera tontesa toga là!).
Non si tratta di ironizzare sulla nostra ignoranza, ché in buona parte non ne siamo colpevoli; nessuno ci ha insegnato la nostra storia. A scuola non risulta al catasto. Abbiamo studiato gli Etruschi... i Comuni... gli Irredentisti... Senza dubbio cose interessanti.
Ma la nostra storia, seppure abbia relazioni con la Penisola(allo stesso modo che con altre Geografie) fa parte di un percorso a se stante e di sommo interesse. È quindi nostro diritto conoscerla, fin dalla Scuola Primaria.
La sua assenza dai programmi scolastici mette in evidenza una grave lacuna culturale.
L'altro aspetto del problema riguarda l'inquadramento obiettivo di questi eventi storici.
Sulle striminzite conoscenze del nostro trascorso, “domina” un termine: “dominazione”(tautologia più che dovuta). La nostra storia sarebbe un cumulo di dominazioni, le quali, tutto sommato, portarono quel poco che c'è di buono (cf. proemio). Questa fuorviante retrospettiva ha logorato per troppo tempo la percezione di noi stessi! Per fortuna la storiografia degli ultimi decenni sta refutando la travisata prospettiva, mostrandoci una verità molto più semplice: abbiamo avuto alti e bassi, come tutti i popoli.
Ma sono i “bei tempi” che ora c'interessano, ovvero: le più che dignitose civiltà da noi create.
In fondo è questo il grande debito che la critica storica ha nei nostri confronti: svelare quei momenti felici in tutta la loro autoctona bellezza! Perché, anche noi siamo bravi quanto gli altri: a volte di meno; ma, a volte... di più!

E tutto ciò dobbiamo raccontarcelo, semplicemente perché... ci fa bene.

Pensiamo per esempio al Periodo Nuragico e a quello Giudicale: due lunghi-intensi capitoli(fra altri) della nostra storia da non poter in nessun modo ignorare. Due momenti in cui fummo forgiatori della nostra politica, della nostra arte, della nostra economia, della nostra felicità. Due momenti in cui la nostra specificità interessava agli altri(popoli) e viceversa, senza sovrapposizioni identitarie. Due momenti in cui parlavamo la nostra lingua senza disdegnare le parlate internazionali, che veicolavano intensi interscambi di diverso genere. Due momenti che hanno visto il loro tramonto non per implosione, ma per cause piuttosto esterne. Due momenti i quali emblematicamente dicono che: civiltà di spessore, nell'Isola, è stata prodotta solo quando ci siamo autogovernati.
Anche allora, certo, esistevano crisi, conflitti, intrighi; non stiamo parlando di parentesi idilliache. Ma si trattava di situazioni “non passivamente delegate”(come accade ora), visto che anche in questi casi eravamo noi i primi attori.

Della Civiltà Nuragica(1700-II sec. a. C.)si potrebbe risaltare l'interessante organizzazione politica, antesignana, probabilmente, di quella Giudicale. Aggiungiamo pure la straordinaria scoperta del 1974: i Giganti di Monte Prama”. Imponenti statue che hanno attratto l'attenzione di storici e archeologi di diverse nazionalità; opere capaci di rimettere in discussione le fin'ora quasi assodate teorie sulla statuaria nel bacino Mediterraneo. Un inestimabile tesoro archeologico la cui portata, forse, non è stata ancora del tutto soppesata.

La Civiltà Giudicale(900c.-1420). All'avanguardia per i tempi. Nessun'altra organizzazione politica reggeva il confronto. Quando ancora nella Penisola Italica ed Europa post Impero (Romano) imperversano il caos e gli anni del piramidale/rigido/chiuso/assolutista/schiavizzante sistema feudale (dell'Impero Carolingio), in Sardegna esistono quattro Stati Liberi e Sovrani a regime semi democratico, ove, in certo modo, vige il senso della “res pùblica”. Per cui il signore (su Judike) non è, come il feudatario o l'imperatore, padrone assoluto, ma amministratore di un Bene non suo (su rennu), perché del Popolo. Quest'ultimo ha facoltà di togliere il potere(come avvenne in alcuni casi)qualora il Judike non lo usi col preposto fine.
Anche dalle leggi, le Cartas de Logu, traspare un embrionale stato di diritto. È pervenuta a noi quella (del Giudicato) d'Arborea. Viene redatta da un team di specialisti, in lingua sarda, per volere di Mariano IV(+1376)e aggiornata dalla figlia Eleonora(+1402c.). Un capolavoro civile e penale(checchè ne dicano alcuni) le cui norme contemplano la difesa della donna, dei minori, la salvaguardia dell'ambiente, la riscossione delle tasse proporzionata al reddito degli abitanti ("...segundu sa fortza issoro") ; cosa inaudita per quei tempi (e per i nostri! ) 

Anche i Giudicati - in parte figli del tempo - dichiarano guerre e stipulano alleanze: tra di loro, con altri Stati. Così pure l'aspetto semi democratico non sempre si esprime nelle formalità oggi intese (il popolo, verbigrazia, solitamente sopprimeva con morte violenta il Judike corrotto o tirannico). Ma lo stacco tra la qualità politica giudicale e quella del resto d'Europa rimane comunque notevole. La stessa cittadinanza lo conferma. Quando già parte dell'Isola geme sotto il mal governo (feudale) ispanico, i sardi ivi sottomessi fanno di tutto per approdare al più equanime e florido Giudicato d'Arborea.

Ma non finisce qui. A dispetto del ritrito “pocos, locos...”, a quei tempi si era uniti! Mentre Mariano IV sta ricacciando con ampio successo gli Iberici, da tutta l'Isola arrivano uomini a dar man forte! Idem per la coraggiosa ma sfortunata battaglia (vera e propria legittima difesa) di Sanluri (1409).

Per queste ed altre peculiarità:“ I Regni sardi erano considerati [nel panorama internazionale] un'ambita fonte di prestigio e di potenza”(F.C. Casula, Breve Storia di Sardegna, p.113). Centri di cultura letteraria ed artistica, come la corte di Ardara (cf. Ivi, p.117) o i monasteri sorti in tutta l'isola(che diedero notevole incremento all'economia giudicale), sono alcuni dei poli che nutrono questa fabbrile civiltà. Non è un caso che Federico II Hohenstaufen di Svevia ambisca imparentarsi(1238) coi reggenti (del Giudicato) di Torres.

Non è comprensibile - o forse sì? - come mai la storia Giudicale venga ignorata dai testi scolastici italiani (visto che all'Italia, per il momento, siamo annessi).

Questi minimi cenni storici non hanno pretese accademiche. Il solo desiderio che serbano è quello di provocare. Sì: provocare. Sollecitare le emozioni represse di ancora troppe donne e uomini sardi che sulla falsa riga di un passato disgraziato hanno costruito i loro miseri pagliericci; perché, si sa: ai dominati, non resta altro che sonnecchiare.

Ora non ha più senso vivere assopiti. Possiamo felicemente colmare gli spazi vuoti della nostra memoria e lasciarci interpellare, se ne abbiamo voglia. Dico bene: “se ne abbiamo voglia”. Ma questo è già un altro discorso.
                                                                                              (Ignazio Cuncu Piano)

giovedì 6 settembre 2012

ISOLANI O ISOLATI: A NOI DECIDERE.

Isolano e... isolato!”. Così un caro amico poco amante degli eufemismi, suol definire la sua realtà di sardo. A prima vista ci sarebbe poco da sindacare: molti (sardi) s'identificano in questa frase.
Eppure...! Eppure la cruda sentenza può trovare il suo contrario: isolano non fa sillogismo con isolato! Vedi, verbigrazia, la storia d'Inghilterra. Ah, grazie! L'Inghilterra è l'Inghilterra! E allora? Se altri vivono storie altre, perché noi no? Poi mi viene in mente Malta, o le Isole Associate alla Nuova Zelanda (Cook, Niue, Tokelan...). Tutte genti felicemente... non isolate.

Molte valli alpine del nord Italia, hanno conservato, fino a non troppi anni fa, situazioni di quasi totale isolamento culturale oltre che geografico; eppure non di isole (in senso geografico) si tratta. 

Qualche anno fa, la ragazza che lesse il saluto dei giovani sardi al Papa (in visita a Cagliari nel settembre 2008), parlò del mare come di una “gabbia d'oro”. Comprendo la difficile situazione giovanile che quella frase recava. Ad ogni modo mi è parso di cogliere una vena d'insoddisfazione, quasi che nascere in un'isola sia una sorta di penalità, di sfortuna.

La fantasia vuol plasmare allora una favoletta nella quale: “Tutto il Popolo Sardo, riesumando usanze remote, dopo solenne assemblea decise all'unisono l'abbandono della landa di Ichnusa per approdare a lidi migliori, dove le strade non fossero troncate dai flutti. Ma che stupore quando, già in mare aperto, incrociarono numerosi uomini, donne, anziani, bambini e giovani che - saputa la notizia - remavano entusiasti verso la ormai disabitata Ichnusa, per ripopolarla! E fu lì che le Genti Sarde, tra l'invidia e il rimpianto, s'accorsero che le acque non blindavano affatto quell'angolo di paradiso che il buon Dio aveva loro affidato. Sì, troppo tardi capirono che le strade della terraferma, lungi dallo spezzarsi, prolungavano all'infinito nelle cristalline autostrade acquee che portavano in ogni dove, adornando l'isola con variopinti colori di libertà”.

Ma - per fortuna! - di favola si tratta: una trama che la nostra stessa storia sa confutare.

Basti pensare - per esempio - agli illustri antenati : i Nuragici. Creatori di una Civiltà decisamente al passo coi tempi (per l'epoca) se non superiore in cersi aspetti, sono protagonisti di interscambi tecnologici (sempre in rapporto con l'epoca) in tutta l'area Mediterranea, arricchendo ed arricchendosi in molti aspetti. L' interazione commerciale e culturale con gli altri (popoli) è quindi parte del loro normale tenore di vita. I Nuragici, nostri antenati: un Popolo sanamente inserito nella propria identità. Un Popolo che non sa che farsene degli ossidati vasconi dei rapaci "Scafisti Tirreni(a) et altri", perché può contare con un'efficiente flotta navale battente Bandiera tutta Sarda! Un Popolo capace di esercitare sovranità in Casa propria, tanto da far pagar le dovute Tasse Portuali a coloro che approdano negli attrezzati, ben manutenuti e custoditi porti dell'Isola (oggi sono Esterni che ci (tar)tassano il diritto al suolo nostrano). Un Popolo capace di metter prezzo ai propri pregiati prodotti. Un Popolo capace di fondare città marittime (Nora, Tharros, Bithia, Karalis...): dignitose vetrine di una civiltà che possiede il “dentro e il fuori”. Un Popolo capace di mettere a frutto l'ambita locazione della propria Patria. Un Popolo che sa usare il mare per aprirsi ma anche per proteggersi. Perché il mare è una lama a doppio taglio e va gestito con sapienza: è piazza di scambio per ciò che è buono e arricchente, ma all'occorrenza dev'essere barriera protettiva contro quanto minaccia saccheggio di: cultura, identità, economia, sovranità, lingua. Penso in proposito  agli abitanti dell'isola Niue, che pur conoscendo l'inglese( lingua portata dal mare), si sono ben guardati dal dismettere la lingua madre: privilegiato vettore della propria identità culturale.

Tutte queste cose le nostre Madri e Padri dei nuraghi (le esemplari reliquie lasciateci, emblema, tra l'altro, di avanzata tecnica architettonica) seppero realizzarle. Cosa avevano in più di noi? Non lo so; forse niente. Forse erano semplicemente felici della loro realtà di isolani, evidenziandone gli aspetti positivi, al contrario di noi. Sono stati creativi partendo da ciò che erano e da ciò che avevano, senza dover importare tronfie chimere; senza dover immolare vergini oasi ai puzzolenti e parassitari Minotauri della Chimica e della Guerra; senza scimmiottare i fighetti di turno che approdano con le loro paccottiglie. Eppoi: erano Loro che aprivano e chiudevano le porte di Casa, perché, fino all'arrivo dei Guastafeste, furono liberi e sovrani! Lo sappiamo: una persona o un popolo si isola quando si rende incapace di gestire la propria libertà.

Oggi i nostri campi, monti, valli, coste, quelle che un tempo erano le nostre strade fatte di mare e di terra, sono imbrigliate da una politica e imprenditoria burattinaie che “da fuori” muovono fili; fanno e disfanno in base a disegni a noi non confacenti, a noi non convenienti, a noi solo dannosi.

Sarà questo tipo di insularità subita/ avvilita/ infantile/ scandalosamente priva di sovranità, la vera causa del nostro isolamento? Sospetto di sì!

A questo punto non è proibito ma doveroso, cominciare a sognare da adulti, sognare sul serio. Sì, sognare come potrebbe essere la nostra insularità se sciogliessimo ormeggi e  salpassimo l'àncora da uno Stato oltremare che non tollera i nostri autentici aneli identitari, non rende il dovuto, spadroneggia sulla nostra remissività, che usa Sandalios come nave-carretta, laboratorio per misteriosi-sinistri esperimenti di guerra, recondito sgabuzzino per attrezzi pericolosi e materiali velenosi; solo per dirne alcune.

Perché la realtà è che nostra storia dice isolamento e degrado allorquando siamo stati assoggettati. Viceversa, parla di alta civiltà, di forte identità, di intensi interscambii culturali-economici con altre civiltà, quando siamo stati sovrani di noi stessi e possessori di una nostra identità. Penso alla già menzionata epoca nuragica (e pre-nuragica). Penso al fiorente periodo Giudicale. Penso alla breve ma significativa parentesi di libertà conquistata nel 1794 (la cacciata dei Piemontesi).  Pura coincidenza?

Morale della Favola :

noi Sardi dobbiamo smetterla di dare colpe all'Isola, al mare, ai flutti... e riflettere seriamente e una volta per tutte sulle ragioni profonde del nostro patire da isolati. Riflettere e imparare a prender decisioni... sovrane, adulte, sceme da rancori, divisioncelle, offesucce e ripicche da "bambini sciocchini per motivi piccini" che tanti treni ci hanno fatto perdere lungo la storia e che offrono fianco debole ad astuti avvoltoi di estranei ecosistemi e a pseudo-furbetti nostrani (i quali, ignari di darsi la zappa sui piedi, son) disposti a svendere la Primogenitura per un misero piatto di lenticchie. Forse sarà duro ammettere che le cause di cotanto isolamento non stanno solo e tutte all'esterno, ma anche, o soprattutto, in noi stessi. Ma sarà piacevole e stimolante scoprire che anche le risorse nuove si trovano... in noi stessi! Risorse da convogliare in gesti determinati e non violenti, con signorilità, rispetto verso tutti, incluso lo Stato Italiano: emblema di una Nazione che rispettiamo e valorizziamo nell'alterità identitaria. Una non violenza intelligente/strategica/creativa, densa di educata fermezza e nobiltà (quella singolare nobiltà d'animo che ci caratterizza quando facciamo sul serio), priva di arrabbiate volgari, d'insultanti e sterili smorfie che lasciano il tempo che trovano e fanno sorridere i furbi e approfittatori avversari.

Dopo accurata e acuta riflessione, forse ci convinceremo che non siamo vittime di una “sinistra predestinazione cosmica”, così come gli Inglesi, i Maltesi, i Nuragici e tutti gl'isolani felici di questo mondo non sono stati privilegiati da nessuna favorevole costellazione che brillò o che brilla apposta per loro!

Non siamo nemmeno più o meno intelligenti, più o meno fessi, più o meno o incapaci degli Inglesi, Maltesi, dei nostri Antenati o di chicchessia.
Nemmeno l'odiosa scusa del “siamo così!” ha più senso; perché altri Popoli, reduci da recenti devastanti/isolanti tirannie, stanno brillantemente risorgendo dalle proprie ceneri, adottando coraggiosi ed efficaci cambiamenti di rotta.

Quindi si può! Prenderne coscienza, è il primo felice gesto di rottura da quell'isolamento che risiede solo nella nostra testa e negli attuali diktat (politici/economici) a noi imposti e da noi accettati.
Il resto, pian piano, viene da se'.
                                                                                     
                                                                                                           (Ignazio Cuncu Piano)

sabato 1 settembre 2012

LINGUA SARDA: PER UNA MAGGIORE APERTURA...

La nota frase “abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani” attribuita al d'Azeglio, dimostra come, fino a non troppi anni fa e tranne alcune eccezioni, gli Stati non nascevano dalla volontà sovrana dei popoli. Si trattava di istanze politiche/territoriali/culturali e spesso religiose, imposte dall'alto. Praticamente il popolo “subiva” quella nuova realtà politica. Così fu per l'Italia. Un'Italia unita sulla carta, ma articolata in un mosaico di identità a sé stanti. È in tale contesto che s'inserisce la presunta frase del d'Azeglio.
Un aspetto su cui si fece particolarmente perno per favorire il compattamento neo-nazionale, fu quello della L(lingua). Ovvia la ragione. Una L è molto più che un modo specifico di esprimersi. Racchiude la storia, la mentalità(quindi la cultura, cioè il modo d'interpretare la vita nei suoi molteplici aspetti), soprattutto se(la L) nasce nel popolo che ne fa uso. Proprio per questa ragione, l'estensione(leggasi imposizione)della parlata nazionale alle varie realtà regionali significò più o meno un trauma per la Sardegna, la quale, nel nuovo panorama, portava fattori etnici più diversi. Totalmente altra dalla realtà peninsulare, con una storia, cultura, L propria - tali da caratterizzarne una vera e propria identità nazionale - dal momento dell'annessione(all'Italia)è sottomessa ad un sistematico esproprio linguistico. Non fu certo la prima volta che una L esterna invadeva l'Isola. Non si può non ricordare, p. es., la latinizzazione che estinse la precedente parlata, anche se poi non ne ostacolò la nuova sintesi autoctona. Da quel momento in poi, la LS(lingua sarda), nata nel popolo e in questi radicata, è riuscita a sopravvivere in mezzo alle tante altre sopraggiunte nell'Isola.
Ma l'imposizione violenta della LI(lingua italiana) sopra accennata fu(ed è)la più capillare. La scuola diventò luogo privilegiato di forzatura psicologica sui bambini che usavano la LS come L madre(penso alla simile sorte riservata agli scolaretti quechua-parlanti del Sud America, costretti a ripudiare la propria L a costo di umilianti castighi). Non si sta parlando di tempi troppo remoti: basta essere poco meno che cinquantenni per ricordare con che severità certe/i maestre/i reprimevano gli alunni che esternavano espressioni autoctone. Il sillogismo (contorto!) era... lineare: per parlare bene l'italiano si doveva evitare il sardo che, per contrapposizione, diventava una lingua grammaticalmente e morfologicamente... errata. Ché dico lingua? di dialetto si parlava!
Un dialetto sbagliato, messo alla berlina perché sinonimo di arretratezza e chiusura. Chi vuol avere esito professionale deve metterlo da parte. E fu così che molti dei nostri genitori, più o meno dalla seconda metà degli anni '50 in poi(in buona fede certo, come i/le maestri/e del resto)cominciarono a comunicare in LI coi figli, per garantire loro un futuro migliore. L'avvento della televisione fece(e fa) il resto.
Com'è la situazione attuale? Fortunatamente assistiamo ad una nuova presa di coscienza che, almeno in teoria, ha saputo confutare quei falsi(a noi noti) luoghi comuni creati attorno alla LS. Ma la teoria, seppure utile, a poco servirà se la L non verrà incrementata nell'uso quotidiano. Ci sono tre aspetti(fra altri) che darebbero forza ad un suo ritrovato protagonismo:

1): la volontà politica. La Regione, ehm... Autonoma(!)mettendo da parte quell'immobilismo causante tanti svantaggi(oltre al devastante-remissivo-servilismo oltremare)deve favorire con decisione l'insegnamento sistematico della LS nelle scuole(inclusa la scuola materna), alla pari dell'italiano e altre lingue. C'è di più: i politici stessi dovrebbero parlare in sardo negli ambiti dei loro uffici, allo stesso modo dei più decisi colleghi catalani o baschi, per intenderci. Fin'ora abbiamo assistito solo a dispendiosi progetti, decollati forse, ma mai atterrati.

2): la scelta degli intellettuali. Gli intellettuali sardi dovrebbero giocare fino in fondo la carta della LS. Utilizzarla sempre, o per lo mano, alla pari dell'italiano: 50 e 50. Come? Parlandola e scrivendola. Pubblicando le loro opere in “limba”. Qualcosa già si sta muovendo. Esistono opere letterarie(anche di autori stranieri)in LS. Penso a “Lèbius ddoi passamus me-in sa terra” di Sergio Atzeni, o “Cronica dae una morti annuntziada” di Garcìa Màrquez. Felicissima al riguardo, la scelta dell'Università degli Studi di Cagliari.

3): l'impegno della CCL(Chiesa Cattolica Locale). Fedele agli insegnamenti del (Concilio)Vaticano II, la CCL ha il dovere di dialogare, valorizzare, fecondare e purificare le culture locali e, al contempo, si arricchisce attraverso di esse(cf. Gaudium et spes, 53.58). Nella storia della Chiesa, le culture dei vari popoli sono sempre state il veicolo privilegiato per la trasmissione della fede. la fede è sempre entrata nel cuore degli uomini, nel loro cuore... inculturandosi. Nel nostro caso - nota bene! -  si tratta di una fede vissuta, pregata e trasmessa in LS per quasi duemila anni!
Circa il tema in questione rimando ad altro titolo su questo stesso blog(cf. “LETTERA APERTA AI VESCOVI SARDI”). Menzionata valorizzazione, si trasformerebbe in salvaguardia e crescita culturale per tutti, a prescindere dalle personali scelte di fede.

La determinazione di queste tre istituzioni sarebbe di grande incoraggiamento per i cittadini tutti.
Ma la realtà attuale, a quanto pare, è proprio al rovescio. Sono infatti associazioni culturali, alcuni movimenti politici(con ancora poco peso istituzionale) e singoli cittadini, impegnati a difendere e diffondere la LS e la cultura che porta in sé. Se le istituzioni, come già espresso, potessero accoglierle e trasformarle in efficaci decisioni politiche, staremmo in sella al senso moderno(e primigenio) del termine “politica”.
Ma, per dirla tutta, è pur vero che tra noi sardi non esiste ancora un “quorum” che renda più che palpabile la volontà di... parlare la nostra L. Su questo aspetto siamo stati remissivi fin dall'inizio, non al pari di altre “isole linguistiche”nello stesso panorama italiano. Ed è anche vero che oggi, molti sardi, si vergognano di parlare la loro L, causa quei preconcetti che proprio tale obbiettivo(screditare la LS)perseguivano.
Mi soffermo su due (preconcetti) :

1): L'USO DELLA LS PRECLUDE L'APERTURA VERSO L'ITALIA E IL RESTO DEL MONDO. Niente di più falso! È proprio la rinuncia alla propria L che crea ripiego su se stessi, che chiude. Nemmeno l'insularità... isola, come molti credono (cf. sullo stesso blog: "Isolani o isolati?"). Il riapproprio della L, può facilmente abbinarsi ad un articolato processo di rivalorizzazione della propria cultura, della propria identità. Tutto ciò favorirebbe il felice innalzamento dell'autostima: la coscienza di valere per se stessi, e non perché supportati da un'entità culturale vicaria. Ed è proprio da tale autostima, da questo “sano orgoglio della propria identità” che scaturisce, a mio avviso, un'equilibrata valorizzazione delle altre culture, la capacità e la gioia di comunicare con gli altri popoli, alla pari, arricchendoci ed arricchendo(in termini di cultura e di giusta economia). L'autostima culturale fomenta l'amore verso il territorio, la sua cura, e di conseguenza favorisce la creatività economica, rendendola affine all'ambiente, efficace ed ecologica. Forse pochi sanno che i Friulani, da buoni custodi della propria cultura, delle proprie parlate(quindi del territorio ed economia)hanno ottenuto la personalizzazione dei prodotti col “Made in Friuli”(s'immagini quali vantaggi da un “Made in Sardinia”!). Un popolo sorretto da questo sano orgoglio difficilmente sa farsi “calpestare in casa propria”, come succede - ahinoi! - ai Sardi. Sarà l'ibrido bilico tra due identità malamente mischiate fra loro(l'alterità italiana e la nostra), la causa di quella “schizofrenia culturale” che tanto abbruttisce il nostro esistere?
I popoli ai quali fu usurpato(specie se per mano ispanica)l'humus culturale, presentano in genere aspetti affini: poca autostima, frustrante dicotomia identitaria, isolamento, scarsa sovranità in casa propria, poco stimolo alla creatività, economia mendicante, inadeguata e con devastante impatto ambientale.
Torniamo all'uso corrente del sardo. Nel nostro specifico, usare la LS nel quotidiano significherebbe, automaticamente, parlare due lingue: la LS per l'appunto e la LI. Ormai l'apprendimento della LI è un dato acquisito. Attraverso i media e la massiccia letteratura, questa L viene appresa quasi-spontaneamente. Il “poco sforzo” nell'apprendimento della LI, libera ampie risorse, nell'ambito della scuola, per insegnamento di L altre. Ricapitolando: realtà bilingue(due lingue naturalmente apprese: LS e LI) + : altre L apprese sistematicamente nella scuola = : una notevole apertura linguistica (quasi superfluo ricordare come i popoli bilingui sono maggiormente predisposti ad apprenderne altre. Forse non è casuale che estimatori e promotori della LS a livello locale ed internazionale, siano persone parlanti più L).

2): QUALE VARIANTE USARE? QUAL'È IL VERO SARDO...? Per fortuna gli specialisti hanno superato quest'altra inutile diatriba(la più antipatica secondo me).
Prima di penetrare la questione una semplice premessa psicologica: quando ci si appassiona ad una causa, tutti gli ostacoli diventano pressoché relativi. Quando invece si è demotivati, quegli stessi ostacoli si tramutano in barriere insormontabili! Personalmente credo che il secondo atteggiamento abbia fatto da sottofondo all'approccio di molti verso l'argomento che si sta trattando, trasformando quello delle più parlate(congenite alla LS)nell'eterno insormontabile dilemma. Entriamo nel vivo della questione.
In alcuni casi, per affrontare un problema, può esser di buon preludio... rivoltarlo. Sì, rivoltarlo... da capo a fondo. Osservarlo dalla prospettiva opposta. Applicando al nostro caso questo elementare metodo, potremmo regalarci una piacevole sorpresa: le varietà della LS si trasformano in un... vantaggio, un valore aggiunto, una... enorme ricchezza linguistica!
È questo dato di fatto estremamente positivo che dovrebbe fare da basamento ad ogni salutare iniziativa intorno alla LS.
Come sappiamo, i due rami costitutivi della LS - il SL(Logudorese) e il SC(Campidanese) - hanno pari dignità; nessuna delle due è più o meno autentica dell'altra(altro falso e paralizzante pregiudizio smentito dall'attuale linguistica – cf. Bolognesi Roberto, Heeringa Wilbert, 2005. Sardegna fra tante lingue. Condaghes: Cagliari). E siccome di varianti si tratta(e non di lingue opposte), le similitudini superano di gran lunga le diversità. Basterebbe confrontare in sinopsi uno stesso periodo scritto in SL e SC per accorgersene. Per questa ragione i sardi dovrebbero interloquire in sardo, usando ognuno la propria variante. Sarebbe un inizio interessante, addirittura divertente: un bel gioco. Quando un gioco piace, le incognite ne diventano l'aspetto più stimolante. Immaginiamo un dialogo tra una giovane universitaria di Tonara ed una sua compagna, p. es., di Sestu. Rispettando una prudenziale cadenza pausata, si accorgerebbero che la differenza tra i termini non impedisce la reciproca comprensione. Per quanto riguarda i vocaboli che proprio non si capiscano, sarebbe parte del... gioco, chiederne significato. Un po' come facevano mio padre(agricoltore campidanese)e tziu Peddio(pastore di Desulo): s'intrattenevano lunghi momenti a parlare, in campagna, a discutere sui pascoli, a litigare, eccetera. Quando qualcuno non capiva l'altro, ne chiedeva il significato. Una volta memorizzata la parola,ognuno dei due, per dare celerità al discorso(specie se era animato)al momento opportuno usava il termine dell'interlocutore. Se fu possibile per un pastore e per un agricoltore...!
Un interscambio di questo tipo arricchirebbe ognuno di noi, in breve tempo, di un'enorme quantità di termini nuovi... di nuove espressioni, favorendo un bagaglio linguistico formidabile. Sarebbe un inizio graduale e non toccherebbe suscettibilità circa la rinuncia subitanea delle parlate locali. Più volte ho partecipato a conferenze “in limba”. Le esposizioni dei dissertanti, fatta nelle due varianti (includendo le specificità regionali e paesane: altra-ulteriore-ricchezza!)si sono sempre rivelate esaustivamente comprensibili. L'attenzione e – perché no? - lo sforzo(esiste conquista senza sforzo?)per capirsi, rendeva la conversazione assai più stimolante ed interessante.
Credo che da questo non complicato interscambio parlato e scritto fra tutti i “varianti-parlanti”, possa nascere in forma spontanea, una sorta de LS Koinè, che potrebbe essere, forse, la piattaforma per una L più unificata. Non bisogna aver paura di far, diciamo, mischiare le parlate sarde: ciò che ne verrebbe fuori sarebbe sempre un prodotto... sardo. decisamente meglio delle attuali parlate “sardo ibride”(che personalmente detesto)prodotte dalla massiccia infiltrazione di termini e morfologie italiane.
Altre L presentano simili ramificazioni/diversificazioni: il russo,il castigliano, il quechua, l'arabo, lo stesso inglese; diversità che non impedisce la standardizzazione grammaticale.
E di regole grammaticali bisogna parlare anche per la LS. Quest'aspetto può essere assolto dall'ambito più connaturale: la scuola. Non possiedo idee chiare in proposito; considero però realista e graduale il suggerimento espresso nell'introduzione(e seguenti pagine) di “Arregulas po ortografia, fonetica, morfologia e fueddariu dae sa norma campidanesa”(Comitau Scientìficu po sa norma campidanesa dae su sardu standard campidanesu patrocinau dae sa Provincia dae Casteddu, 2009. Alfa): insegnare la grammatica in accordo con le due varianti. Una volta poste solide basi sulla propria variante, nelle classi superiori gli alunni potranno avere approcci con: morfologia e grammatica di quella opposta(SL per gli studenti dell'area campidanese e viceversa)e – perché no? - un'interessante infarinatura sulle altre lingue dell'isola. Si pensi poi a quante felici iniziative si potrebbero inventare per rafforzare conoscenze:interscambi culturali tra studenti, eccetera. Credo invece che l'approccio letterario possa essere fatto fin dall'inizio con le due varianti.
Non sarebbe realistico chiudere il discorso senza fare menzione alle appena citate L, che sommano “ricchezza alla ricchezza”: il Tabarchino, il Gallurese, il Catalano; e mettiamoci pure “s'Arromanisca” dei ramai di Isili(chi potrebbe essere così culturalmente miope, da non vedere la nostra Isola come un prezioso scrigno stracolmo di variegato tesoro linguistico?).
Anche per queste isole linguistiche vale quanto più sopra espresso: vanno protette ed insegnate nei rispettivi luoghi. Possibile obiezione: un bambino catalano dovrebbe già essere in grado di parlare: LC, SL e LI, alle quali si aggiunga, p. e. , l'inglese et altre lingue? Proprio così. Inserire un bambino, fin dai primi passi, in una realtà multilingue vissuta nel quotidiano e saggiamente articolata dalla scuola: è cosa fattibile... è cosa ottima... è cosa auspicabile. Alcuni miei carissimi amici indiani, fin da bambini convivono connaturati con la loro lingua, con quella delle regioni limitrofe, coll'Indi e con l'inglese. I Paraguaiani che vivono al confine col Brasile parlano: guaranì, castigliano e brasiliano. Molti giovani altoatesini parlano: tedesco, italiano e inglese. Sono molti i belgi che parlano: fiammingo, francese, tedesco e inglese, oltre che, in alcuni casi, i dialetti locali. Molti giovani friulani parlano: furlan, italiano, inglese, francese e, in alcuni casi, qualche lingua slava. Questi solo alcuni esempi.

Non priviamoci della nostra ricchezza linguistica, la quale, tra l'altro, grazie al sano paradosso più sopra argomentato, ci apre ad altre lingue! Non priviamoci di conoscere tutte le nostre lingue (patrimonio dell'umanità)! Ridurci a parlare solo l'italiano in mezzo a cotanta ricchezza linguistica è un suicidio culturale!

La differenza che intercorre tra dismettere la LS (processo attuale, sig!) per incunearci nel solo orizzonte italiano, ed il processo multilingue(fin'ora ipotizzato)ai fini di una sana apertura verso se stessi e i popoli, credo appaia notevole.

Naturalmente il mio è un sogno dall'identità amatoriale(non sono un linguista). Menti specializzate possono disegnare progetti di più sostenuta efficacia. Ma... fateli! Linguisti... Specialisti... Regione Autonoma: realizzateli per favore!

Nel mondo esistono migliaia di lingue: ciascuna racchiude ed interpreta una cultura: vero e proprio patrimonio dell'umanità. Preservare la LS dovrebbe per noi avere anche questo senso: un dovere; uno stimolante dovere verso l'umanità tutta.

Alcuni, inquadrando la nostra L all'interno di un irreversibile processo di estinzione, congedano le tematiche fin'ora affrontate con un laconico e remissivo:“Ormai!”. Valga l'esempio del Popolo Ebreo(ammirabile per la sua millenaria difficile ma tenace lotta identitaria). Oltre a creare una Nazione dal nulla(1948), ha saputo riesumare e, in certo modo reinventare, la propria lingua, praticamente morta.
La LS non è morta. Seppure maltrattata e umiliata, è viva. Salvare questo “patrimonio dell'umanità” ancora si può. Siamo ancora in tempo per omaggiare le giovani generazioni col prezioso bagaglio culturale a nostra volta ricevuto in eredità. Ma sbrighiamoci... il tempo stringe.
                                                                                             Ignazio Cuncu Piano.

La vita è un grande gioco. Giochiamo questo gioco! Non limitiamoci a guardar giocare gli altri. Non contentiamoci che qualcuno giochi al posto nostro”. (cf. Robert Baden Powell)