giovedì 25 aprile 2013

SARDEGNA: LA NAZIONE DALLE INNOVAZIONI NEGATE ?


Se in quest'articoletto volessi convincere ad usare l'aggettivo “rosso” per indicare il colore verde, o che “onesto” significa “corrotto”, o che le Alpi siano una vasta pianura; o a dimostrare scientificamente che i telefoni hanno sentimenti, molto probabilmente a chi legge verrebbe da sorridere, o quanto meno da sospettare che il mio cervello cominci a far cilecca!

Eppure bisogna ammettere che in molti aspetti fondanti della vita, noi pensiamo con la stessa distorta metrica cui sopra gli esempi, semplicemente perché alcuni addetti ai lavori, nel passato e nel presente, hanno avuto la disonesta abilità di adulterarci la realtà dei fatti attraverso un perverso gioco di specchi.

Il colmo del paradosso in questa “truffa del reale” si dà quando, assuefatti ormai al “falso storico accettato come autentico”, sorridiamo (a mo' di presa in giro) o mugugniamo sospettosi davanti a chi, con onesta lucidità intellettuale, vuol restituircene l'interpretazione adeguata.

La realtà di fondo che tutti dovremmo tener presente, sempre, è che la vita risulta molto meno inquadrabile (va molto più in là) di quanto alcuni abbiano voluto e vogliano farci credere! Lo stesso dicasi della storia trascorsa, spesso narrata in dissonanza circa la misurazione oggettiva dei fatti.

Se trasportiamo il discorso sulla realtà sarda, potremmo soffermarci su miriadi di falsi luoghi comuni (incentivati dall'opportunista di turno) che hanno trovato buona accoglienza nel nostro mal nutrito bagaglio storico e nella nostra sbiadita e manipolabile auto-percezione.

Pensiamo al più infame, falso e dannoso assioma a noi ben noto: “niente di nuovo [cioè: di buono] è mai sorto dall'Isola”, quasi fosse stregata da arcani e arcaici immobilismi cosmici! Mentre: “tutta la novità è arrivata da al di là del mare”. Se ci si pensa bene, si tratta di un'asserzione a dir poco ridicola; eppure ha fatto e fa breccia... !

Complice di tale leggenda nera è stata, fino a qualche decada fa, una certa classe - pseudo? - intellettuale nostrana, la quale, consapevole o meno (non sta a me giudicare), ha dato cattedra, insegnando, o forse più banalmente, ripetendo pregiudizi storici e antropologici scarsamente documentati.

Oggi per fortuna le cose stanno cambiando: storici ed archeologi riportano sempre più alla luce del vero le innovazioni sorte (e a volte esportate) in seno alle civiltà autoctone e alla vita propria della Nazione sarda.

Dal mare son certo arrivate cose buone, ma anche guai. Che dire se si pensa che i saccheggi di ingenti risorse sono stati (e sono) opera dei Civilizzatori (!) di turno? Chi direbbe che il banditismo fu incoraggiato da inique decisioni oltremare, che alterarono l'ecosistema economico/sociale isolano, basato su tutt'altre (e più sane) regole di convivenza? Che pensare sull'ambiguo “Piano di Rinascita” del secondo dopoguerra, il quale, anziché favorire un tessuto di piccole industrie sintonizzate colla vocazione artigianale, agricola, pastorale, turistica, ha innalzato mostri chimici, devastanti (in tutti i sensi) e precocemente fallimentari? E le basi militari? Enormi teatri di misteriosi addestramenti a favore dell'industria delle guerre destinate a Paesi poveri (gli unici destinatari dei contemporanei conflitti bellici). E così di seguito.

Mi piace però ripetere che le cose stanno progressivamente cambiando, in parte grazie al già citato processo di sana revisione della storia remota e recente (cf. Omar Onnis, "Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso", Arkadia, 2013), in parte grazie a tante persone di buona volontà che “coi fatti” stanno dimostrando a se stesse e agli altri che tante stupide e false etichette non valgono le radici ricche e profonde di un popolo dignitoso e creativo.

Certo, da qui a che cambi la mentalità ce ne vorrà ancora un po'. Perché la mentalità, lo sappiamo, non è qualcosa che muta col solo dato scientifico/razionale. Sedimenta nell'ambito delle emozioni e quindi scatta in automatico, con ampio stacco sulla ragione, davanti alle sollecitazioni che rispondono a distorte ma assimilate rappresentazioni del reale. Con pazienza e costanza ci sarà da ricostruire (molti, reitero, già l'hanno fatto o sono a buon punto dell'opera) emozioni nuove basate su una "percezione reale del nostro passato-presente", costituito, niente più e niente meno , da cose buone e meno buone. Come succede a tutti i popoli, del resto.

Ma torniamo all'oggetto della la presente riflessione: le innovazioni. Non tanto quelle del passato (che ce ne sono state tante) , ma del presente storico.

Cosa può significare avere capacità innovative? Non chiudersi alla novità, ma discernerla; prendere spunto anche – perché no? - da quelle ideate fuori casa per poi metabolizzarle, adattarle al nostro (niente nasce da niente) o, prendere come buona una novità nata in casa e integrarvi aspetti già messi in atto in altri luoghi. Quest'arte eclettica vien bene solo quando si ha sana e profonda stima dell'identità culturale propria; altrimenti si rischia il  "copia-incolla" , si fanno danni e nient'altro.

È cosa sana infatti, che i benefici di un'innovazione, per essere tali, mai debbano alterare l'humus culturale specifico, bensì fomentarne la crescita. L'immolare sull'altare “dell'innovazione fine a se stessa” - quand'anche apportasse un qualche iniziale (momentaneo) beneficio economico - la dimensione identitaria, sfocerebbe inevitabilmente in una gravissima deriva globale; quindi, alla fin fine, anche economica. Al riguardo, Il già citato piano di rinascita può essere un monito tristemente calzante.

Esistono azioni innovatrici, in Sardegna, oggi?  : nell'ambito della politica, dell'economia, del lavoro, della cultura, dell'arte. Ma allora, perché non si riesce a vederle, a toccarle, ad assaporarne i frutti? Be', chiariamo innanzitutto che chi vive con mente e cuore ben disposti verso una sana auto-percezione etnica, chi vuol cercare e rischiare in prima persona su nuove strade...: le vede, le tocca, le apprezza, le sperimenta, le fomenta e in molti casi ne gode i frutti (penso al progetto “Sardex”, all'impatto positivo sulle imprese isolane, offrendo percorsi di interscambio monetario e di beni, in termini molto più umanamente sostenibili a confronto degli oppressivi circuiti bancari). Insomma: chi cerca... trova!

Si è già in tanti, per fortuna, ad aver trovato e... toccato. Ma c'è ancora molta strada da fare. È ancora tenace la poca autostima che ribassa il valore delle autoctone iniziative, annichilendole dall'umiliante e irragionevole paradosso dell'ipermetropia, che spesso ci fa mettere a fuoco solo le cose lontane. Dovremmo decisamente far indossare occhiali da lettura alla nostra visione della realtà, per renderci conto di come tante novità che nascono nell'ambito vitale nostrano, portino in se' un efficace valenza innovativa.

Eh sì, bisogna proprio ammetterlo: si mal tollera l'iniziativa nata in casa. Arriva poi il primo illuminato d'oltremare a proporre - perché no? - in buona fede, più o meno le stesse cose... e noi lì, a sgranare gli occhi sulla risolutiva novità portata dalle onde : "Ma la' ca seus...!"

Nella politica questo modo di fare è palese. Si pensi ai fatti di storia recente. Nel suffragio del febbraio 2013, sia in Italia che in Sardegna, una significativa parte dell'elettorato ha puntato su proposte alternative, verosimilmente più trasparenti e dal volto giovane. Un chiaro rigetto della politica stantia e inconcludente. Una scelta che rispetto e condivido.

Ma se penso che in Sardegna, una politica dal volto ugualmente giovane sta portando avanti proposte innovative, concrete, intelligenti, argomentate e trasparenti (osservate con attenzione da partiti italiani e di altre Nazioni) da circa una decada, quindi prima che certe idee (in alcuni aspetti) simili arrivassero dall'Italia per ricevere (dai Sardi) tanto plauso e consenso: riconosco che un po' di rabbia sui tempismi perduti... mi assale !!

A scanso di equivoci, è bene chiarire che la responsabilità non è di coloro che, con onesta intenzione ci porgono le loro proposte oltremare. Ripeto: tutto ciò che è buono ed efficacemente adattabile, venga da qui o da lì, sia bene accetto. Il problema siamo noi e i citati pregiudizi che ci precludono ai vantaggi immediati e più plasmanti che la valorizzazione dell'innovazione locale ci offrirebbe.

Morale della favola: dobbiamo sganciarci una volta per tutte da questa terribile distorsione mentale: terribile ingiustizia verso noi stessi. Sì, terribile; solo questo superlativo dà giusto peso al devastante paradosso di un popolo che reprime se stesso, che pensa di non essere ciò che è o di non poter essere ciò che può essere; un popolo che vive la favoletta del “Re nudo” ... al contrario !!

Certo: sarebbe più comodo continuare a credere di non saper innovar da noi stessi, ché il nostro comodo andazzo avrebbe ragion d'esistere! Però, purtroppo, tal capacità è a noi consona.

Ma! C'è un "ma" nella questione. La nostra storia parla di maggiore innovazione/ creatività, nei momenti in cui siamo stati liberi e sovrani, nei momenti in cui ci siamo autogovernati. Viceversa, la nostra stessa storia ci racconta pesantezza "nel crescere" e spesso regressione, nei periodi di forti condizionamenti (dominazioni) imposti da entità politiche esterne.

Forse, bisognerebbe rifletterne i profondi perché, analizzare se qualcosa di simile non accada ancor oggi, ed assumerne tutte le derivanti... in prima persona.

                   Ignazio Cuncu Piano

domenica 14 aprile 2013

IL PARADISO DEI BACHI CHE VESTIRONO LA ZARINA

(Breve biografia di Francesca Sanna Sulis)

Non intendo narrare la Russia degli Zar, l'India dei Mahatma, la Cina Imperiale e nemmeno il Medio Oriente delle Mille e una Notte. Senz'altro queste grandi culle di civiltà lo meriterebbero, ma non adesso.

Desidero invece raccontare un'avventura molto più vicina e bella. Bella perché meravigliosamente normale e geniale al contempo. Un'avventura costruita da gente normale che sa rendere geniale e creativo il quotidiano. Si tratta di una lunga storia che ha come protagonisti donne sarde, uomini sardi e la Sardegna; una storia che fino a qualche anno fa, ahimè, non conoscevo. Una storia che va raccontata, perché apporta alla nostra memoria un tassello felice. E di tasselli felici la nostra storia ne ha talmente tanti, che se dovutamente disposti e incastonati assieme a quelli... meno felici, sarebbero, o meglio...  sono in grado di offrirci un quadro del nostro trascorso assai più equo rispetto ai racconti di certi catastrofisti cantastorie.

Mi appresto a raccontare, con poche ed imprefette pennellate, l'avventura di alcuni bachi da seta, i quali:

Scoprirono come il clima e l'ecosistema della Sardegna, fosse perfettamente rispondente alle loro vitali esigenze. E chi si trova a suo agio in un luogo, di solito ci fa casa, mette su famiglia e vi impianta bottega, soddisfatto e creativo. E fu proprio quello che i nostri laboriosi animaletti fecero in questo lembo paradisiaco del mondo: cominciarono di buona lena a tessere il prezioso filamento con quel tocco in più d'eleganza e precocità offerti dal vantaggioso contesto ambientale”.
La cosa sarebbe passata certo in sordina se non fosse caduta sotto l'attenta osservazione di una donna intelligente, intuitiva, audace, colta, imprenditrice, organizzatrice, sensibile ed efficacemente impegnata nella promozione umana: Francesca Sanna Sulis”.

Francesca Sanna Sulis* nasce a Muravera, nel 1716, in seno ad una famiglia benestante dedicata all'agricoltura, all'allevamento ed al commercio. All'età di 19 anni convola a nozze con Pietro Sanna Lecca, brillante giureconsulto cagliaritano.

I due coniugi fissano la loro dimora nel capoluogo isolano. Qui Francesca approfondisce la propria formazione culturale, con un taglio, oltre che umanistico, sociale ed imprenditoriale. Si tratta di uno studio non fine a se stesso, ma proteso a fini di alto volo, squisitamente nobili.

L'attenzione sociale della Sanna Sulis infatti è rivolta alle giovani generazioni delle classi più povere, con particolare attenzione alla condizione delle ragazze. Queste ultime sono doppiamente disagiate per l'impossibilità di crearsi un'indipendenza economica (la dote matrimoniale, per esempio) che possa veicolare il loro futuro, qualora la famiglia non ne abbia le possibilità.

La Nostra comincia a prender coscienza che la propria indole sensibile, di fronte a tale miserevole scenario, non può limitarsi alla sterile commiserazione. Altri aspetti della sua stessa personalità devono esser chiamati in ballo: la capacità decisionale, la tenacia, la voglia di fare. Insomma: è troppo intelligente (da “inter lègere”: saper vedere/agire in profondità) per non capire che può e deve fare qualcosa, ché la posta in gioco è niente meno che la dignità di un Popolo: il suo Popolo.

La storia dell'umanità è densa di lieti paradossi che raccontano come cuori sensibili e generosi abbiano trasformato le più agghiaccianti situazioni umane in vere e proprie avventure di misericordia (misericordia: entrare in feconda empatia con chi ha bisogno, per produrre speranza dalla disperazione, vita dalla morte). Si tratta di uomini e donne che il più delle volte operano nell'anonimato questi “miracoli del cuore”. Peccato che i mass media, così indaffarati nel terrorizzare (per conto di chi ?! ) con continui bollettini di guerra (certo, i problemi esistono...), non sappiano – non vogliano? - trasmetterci le tante buone gesta che, alla fin fine, sono quelle che apportano linfa vitale al mondo.

Ma riportiamoci al '700 sardo. Pare che Francesca, nella tenuta di famiglia, sia sempre stata attratta dalla buona resa di alcuni gelsi, favorita dal clima e dalle caratteristiche del terreno. Saranno proprio questi alberi ed i loro preziosi degustatori, i bachi, a suggerire alla nostra protagonista l'inizio di un'avventura decisamente grande.

Decide così di incrementare un'ampia coltivazione di gelsi (nelle campagne tra Muravera e Quartucciu) e ad intraprendere, con molta audacia, l'arte della bachicoltura, filatura e tessitura. Questo tipo di attività imprenditoriale diventerà la risposta concreta al suo intimo anelo: creare un ambito di lavoro dignitoso alle ragazze e ragazzi appartenenti al popolo affamato e oppresso. Un sogno che diventa realtà. Nel giro di alcuni anni, nelle le colture di gelso e nei laboratori (allestiti coi più moderni telai dell'epoca) per la lavorazione del prodotto, trovano lavoro centinaia di giovani, per lo più donne.

Ma donna Francesca non è ancora soddisfatta. Le sue ragazze, i suoi ragazzi, meritano molto più che solo lavoro, meritano: “formazione culturale e professionale”. Quest'intuizione, oggi del tutto acquisita, per quei tempi e nella realtà di una Sardegna che persiste ancorata nel feudalesimo, racchiude una valenza quasi (o senza quasi) rivoluzionaria.

Nascono così per sua iniziativa vere e proprie Scuole Professionali, fornite di docenti tra i più competenti nel settore. Non vi si insegna solo l'arte del baco e della seta, ma anche a leggere, scrivere, studiare, “attraverso veri e mirati piani scolastici di formazione di base” (Lucio Spiga), in modo che, quelle giovani e quei giovani che si scoprano portati, possano valorizzare appieno le proprie capacità intellettuali. Alla fine del corso di formazione, ogni ragazza riceve in dono un telaio nuovo di zecca: simbolo dell'autonomia umana ed economica che un'autentica formazione deve fomentare .

Le suddette scuole, per la loro concezione articolatamente moderna, non hanno antecedenti in Europa. Il Regno d'Italia, per esempio, vedrà sorgere i suoi primi istituti professionali, dal 1859 in poi. 

E a proposito di incremento professionale, mi si permetta una parentesi storica e volutamente polemica: sarei curioso di sapere - per esempio - quanti operai sardi della Saras (sì, quella che avvelena gli abitanti di Sarroch e non solo), dalla fondazione (1965?) ad oggi, siano arrivati al top della formazione professionale e manageriale in campo petrolifero. Non ho la risposta, ma temo di rimanere deluso! Altra curiosità: quanti utili offre alla collettività sarda, la Saras (ed altre realtà industriali simili) in proporzione all'altissimo scotto ecologico (ed economico) che si sta pagando? Questa risposta sì la so... la sappiamo tutti: minimi, irrisori : è (molto) più la spesa che l'impresa !

Simile devastazione ecologica ed economica (ovvero: calpestio dei diritti umani) non si giustificherebbe nemmeno se si ribassasse il combustibile a tutti i residenti isolani (cosa che, stiamone certi, mai avverrà). Se poi c'aggiungiamo il Progetto Eleonora”, (non è la prima volta che nella storia sarda il nome di Eleonora è manipolato a danno di... Eleonora) - per fortuna massicciamente contrastato da mobilitazioni di cittadine e cittadini vocati al bene della propria Patria - eccoci che pioverebbe sul bagnato, e si arriverebbe (speriamo di no) all'ennesimo caso di sfruttamento selvaggio legalmente riconosciuto!

Insomma, non c'è che dire: i signori dirigenti della Saras (et altri!) avrebbero urgente bisogno di un intensivo corso su “etica imprenditoriale” dettato dalla settecentesca donna Francesca Sanna Sulis!

Chiudo la parentesi e torno al Diciottesimo... ché forse è meglio (non sempre il passato – per certi aspetti - è sinonimo di maggiore arretratezza rispetto al presente!).

Le già citate scuole professionali tendevano ad innalzare la qualità delle persone prima di tutto, ma anche quella del prodotto elaborato. Si trattò di un'altra idea all'avanguardia per l'epoca: la qualità rende competitivi nel commercio internazionale. La qualità onestamente pubblicizzata... premia. E la qualità premiò abbondantemente gli sforzi di donna Francesca e dei suoi amati giovani.

Fu proprio per qualità superiore, che la seta sarda venne massivamente richiesta in più parti d'Europa. Inoltre, i precoci tepori primaverili isolani anticipavano la “schiusa dei semi” di circa un mese rispetto agli altri luoghi, con gli intuibili vantaggi commerciali che ne derivavano.
Le cronache narrano addirittura di sei golette noleggiate dalla Sanna Sulis per traghettare verso i porti europei la la seta e gli abiti confezionati dai suoi laboratori.

La fama dei bachi nostrani si protende fino all'aristocrazia femminile di Casa Savoia, che richiede di essere fornita e... vestita da donna Francesca, che nel frattempo è diventata anche una prestigiosa e creativa stilista: “Per parecchi anni le sue collezioni furono proposte al pubblico milanese a palazzo Giulini” (Maria Paola Masala) .

Anche la zarina Caterina di Russia (+1796) viene a conoscenza dell'alta moda inaugurata in Sardegna, e non dubita un istante nel scegliere di “coprirsi” con cotanta morbida eleganza.

L'attività lungimirante della Sanna Sulis ( insieme a quella di altre donne che citerò più sotto), arreca un grande beneficio in tutta la società sarda, permettendo la rivitalizzazione del tessuto economico che ruota intorno agli imprendimenti da lei sostenuti: “Avviò [anche] tentativi di sviluppo dell'agricoltura […]. Queste iniziative, che intanto si estesero in varie località sarde, ebbero il merito di far diminuire il numero dei disoccupati e di evitare l'importazione dei manufatti, che a quei tempi venivano pagati a prezzi altissimi.[…] Favorì l'esportazione di [...] prodotti che portarono alla Sardegna capitali notevoli” (Lucio Spiga).

La lunga e felice avventura terrena di questa splendida donna termina in bellezza nel 1810. Si può morire in bellezza? Direi di sì. La morte può essere addirittura l'ultima opportunità per amare, l'ultimo gesto di carità (su questa terra), il tocco finale di una vita trascorsa all'insegna della... vita. Cediamo parola ad un estratto del testamento: “ In primo luogo ordino e comando che [mi] si dia sepoltura [...] nel modo più semplice e senza pompa magna alcuna […]. I beni, terre e tanche è mia espressa volontà si divida tra quei poveri [...] i più necessitati preferendo quelli di migliore estrazione e di buoni costumi”. L'amore niente trattiene e dà tutto di se'.

Pare proprio che questa “pioniera dell'imprenditoria femminile e della formazione professionale” (Masala), abbia disposto di ingenti ricchezze! Ma quando la ricchezza materiale diventa espansione d'amore, quando chi possiede tanto si fa di quel “tanto” saggio amministratore come se niente fosse suo, e tutto usa come strumento funzionale ad allargare gli orizzonti di vita di chi dalla vita ha avuto poco o niente... allora il mondo acquista colori variopinti.

Donna Francesca Sanna Sulis è stata una donna che ha saputo dar colore al mondo, ai cuori. Di questi artisti ha bisogno l'umanità!

Per avere un quadro più completo dell'imprenditoria femminile sarda dell'epoca, mi permetto di aggiungere quanto: “Anche sua sorella [della Sanna Sulis] Lucia intraprese questa professione, ma in un'altra zona della Sardegna, quella di Sassari. In quegli stessi anni altre donne si dedicarono alla bachicoltura; erano figlie del marchese Giovanni Manca di Villahermosa: Maria Caterina, Anna, Giuseppina, Maria Teresa, Antonietta e Bona. Soprattutto la marchesina Anna era molto intraprendente; soggiornava spesso fuori Sardegna per approfondire tecniche imprenditrici” (Donne e storia, ed. Kita, 2011, pag.124).

La vicenda di Francesca e di queste altre donne decisamente emancipate per i loro tempi (e anche per i nostri), richiama ad una costante nella storia sarda, attraversata da un'intensa “scia rosa” che ha lasciato tracce felici nella nostra memoria. Le giudicesse Elena di Gallura, Benedetta di Calari (tra le prime regnanti donne in Europa), Eleonora d'Arborea, Francesca Sanna Sulis e le altre imprenditrici qui citate, Gabriella Sagheddu, Grazia Deledda, Paola Satta, Adelasia Cocco Floris, Antonia Mesina, Maria Lai, Maria Giovanna Dore (e tante eroine dell'anonimato) : donne che hanno saputo esprimere, ciascuna nel proprio contesto, d'accordo alla propria indole e ai propri valori di riferimento, una granitica coerenza nel portare a termine quella missione da loro intesa come tale.

"Nelle campagne di Muravera, Quartucciu, Laconi e Sassari" (ivi, pag. 128), si possono contemplare ancor oggi numerosi alberi di gelso che ci rimandano, composti, silenti e un po' malinconici, ad una meravigliosa storia di donne e di uomini, che purtroppo non è più. Una storia che c'interpella con quella forza evocativa di ciò che, anche se già fu, potrebbe - perché no? - tornare a... essere.

Niente e nessuno regalò a questa donna ciò che ella riuscì a realizzare, la quale si trovò a dover "superare non poche difficoltà per ottenere quanto ai soli imprenditori maschi era allora concesso anche dai monti granatici, che finanziavano le imprese agricole" (Spiga, Francesca Sanna Sulis, Workdesign, 2004, pag.63). Tutto ciò che ottenne fu conquistato, palmo a palmo, dalla sua voglia di fare, di far bene e di far del bene, dalla voglia di innovare e di rischiare per sana autostima e amore alla sua amata Gente.

Non so se oggi le cose siano più facili o difficili di allora. Ogni epoca ha i suoi pro e contro. Ma di una cosa son certo: alla luce della tenacia di Francesca, qualsiasi obiezione del presente acquista il sapore di una deplorevole e smentita scusa per non fare, per non creare, per non rischiar di nostro; per rimanere riversi sul comodo pregiudizio “ch'è inutile tentare perché oggi, come sempre (?) ogni vento ci soffia contro con forza inrisalibile!”.

In effetti nell'Isola, soprattutto quando è  Maestrale, il vento soffia forte. Anche al tempo di Francesca Sanna Sulis quel vento soffiava forte. Lei riuscì a mettersi di spalle, a farsi spingere. Ma anche a navigar di bolina; e all'occorrenza, a usare muscoli propri e remi, per vogar con bonaccia.
                                                                                          
                                                                                                               Ignazio Cuncu Piano

* La maggior parte dei dati biografici, sono estratti dal libro: “Donne e Storia”, pagg. 123-129

lunedì 1 aprile 2013

"NUNC DIMITTIS SERVUM TUUM..."(papa Benedetto: il coraggio della profezia)

Il comprensibile entusiasmo che ruota intorno alla figura dell'attuale Pontefice, sta mettendo un po' in ombra (senza cattiva volontà di nessuno) la portata massima del gesto di papa Benedetto. Non sia quindi di troppo ricordare che tra i due pontificati esiste una “strettissima-consequenziale relazione”. Se oggi possiamo gioire attorno a Francesco, è grazie al gesto di Benedetto.

Qualcuno potrebbe con ragione obiettare che fino a poco più di un mese fa, l'attenzione era tutta rivolta su Benedetto. È infatti vero. Com'è anche vero che tranne qualche voce fuori coro e fuori tono, l'opinione pubblica ha saputo cogliere la profondità ed il coraggio del gesto, accompagnandolo con squisito rispetto. Anche i media hanno dimostrato professionalità e toni caldi. Penso, per esempio, con quale delicatezza un'emittente di matrice laica seppe commentare il “volo di commiato” che portò papa Ratzinger verso Castelgandolfo, il 28 Febbraio scorso.

L'abdicazione del Papa è stata per molti una novità, un fatto inaspettato. Non eravamo abituati ad un gesto che pur essendo previsto dal Codice di Diritto Canonico (Can. 332, comma 2), ha colto di sorpresa la stessa Curia romana. Tant'è così che in tempo record un team di canonisti ha dovuto coniare nomenclature e modalità nuove del tipo: come denominare il vescovo di Roma emerito, che tipo di abbigliamento, eccetera.

Di per se', come già espresso, l'abdicazione non è una prassi del tutto estranea al papato. Nella storia della Chiesa si enumerano alcuni precedenti (6 casi, se non vado errato).

In tempi più recenti, seppure non portata a termine, pare sia stata contemplata da tre papi: Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Quando in piena tempesta nazista si fece imminente il pericolo di un possibile rapimento del pontefice da parte di Hitler, si commenta che Pio XII (+ 1958) avesse lasciato per iscritto un'abdicazione da mettersi in atto qualora il fatto si fosse consumato, in modo che il dittatore tedesco non potesse tener imprigionato il successore di Pietro, ma solo l'uomo Eugenio Pacelli (questo il nome del papa). Una seconda possibilità di abdicazione, fu messa in bilancio nel suo ultimo periodo di vita, per motivi di salute.

Paolo VI (+ 1978) la ipotizzò, qualora gli anni e gli acciacchi gli avessero impedito di svolgere adeguatamente il ministero petrino. Sembra addirittura che avesse richiesto ad un fedele collaboratore di avvisarlo circa la comparsa di eventuali defezioni senili.

Anche Giovanni Paolo II (+ 2005) , all'aggravarsi del morbo di Parkinson, soppesò seriamente l'idea di abdicare. Sappiamo poi com'è andata.

Di papa Benedetto conosciamo i motivi dalle sue stesse parole rivolte a tutti. In piena lucidità, ci ha detto sic et sempliciter che alla sua età e coi suoi acciacchi, le forze per sostenere il ministero – soprattutto in un momento così delicato per la Chiesa e per l'umanità tutta - sono venute meno.

I complottisti di turno e coloro che non amano il diamantino, hanno voluto andare oltre queste parole, considerate una pietosa scusa per celare l'impotenza di un timido anziano di fronte a concrezioni di palazzo ormai ampiamente autonome nei loro meccanismi di potere. Non escludo l'esistenza di certe tirantezze poco evangeliche nei piani alti vaticani (lo stesso Benedetto, in più di una circostanza, ne ha fatto allusione), ma ciò niente toglie alla semplice verità delle parole del papa, il cui ministero rimarrebbe pur sempre un'impresa enormemente esigente anche in una Chiesa ove tutto filasse liscio.

Credo che invece l'attenzione vada posta sulla molteplice profondità del gesto, che ha da insegnare molto a... molti! Mi soffermo soltanto su tre aspetti: la naturalità, l'umanità e la... profezia.

La naturalità di un gesto, a mio parere, la si coglie nel connubio tra la ragione, l'obiettività dei fatti, gli aspetti della personalità e l'esperienza (passata e presente) di chi lo compie. Cosicché, la scelta di Joseph, nell'ambito della sua personalità, è stata del tutto naturale, alla stessa stregua di chi, al suo posto ma con altra personalità e differenti riferimenti esperienziali, avesse scelto di continuare il proprio percorso nel ministero petrino (come, verbigrazia, optò Giovanni Paolo II).

L'umanità del gesto – in parte inclusa nel precedente punto – è quella che ne esprime appieno la grandezza. La scelta di Benedetto è stata, ancor prima che ecclesiale-spirituale, un gesto umano. L'eccessiva e spesso ambigua sacralità che a volte conferiamo a un papa, è stata sanamente contenuta da un “uomo che si sa uomo”; senza dubbio servo utile e prezioso, ma al contempo - sempre perché uomo e non semidio - limitato e mai indispensabile.

C'è poi l'aspetto della fede, che non va per conto proprio ma s'innesta nelle istanze di cui sopra. Il papa stesso ci ha detto che si è trattato di una decisione pregata e pensata a lungo, presa in umiltà davanti a Dio e per il bene della Chiesa, nella consapevolezza che essa è di Gesù, il quale: “Non le farà mai mancare il Suo sostegno” (Udienza Generale, 27 Febbraio 2013).

Quest'ultima motivazione racchiude un'imponente valenza profetica.

Il profeta nell'ambiente biblico era inviato da Dio (cf. Is 6, 1ss; Ger 1,1ss; Am 1,1-2) per annunziare in Sua vece. Aiutava gli uomini a leggere, decifrare e vivere la propria esistenza e la propria storia alla luce del progetto di amore di Dio, al di sopra di ogni frivolo interesse personale. Suo fine era, in sostanza, annunciare e vivere la “verità di Dio”, anche al prezzo dell'incomprensione, dell'impopolarità, della persecuzione (cf. Ger 26,7-11). Quasi sempre infatti è inviato (al popolo d'Israele) in momenti di crisi per: consolare, dare speranza, orientare, richiamare, rimproverare, difendere gli oppressi (cf Am 8,1-6).

Anche oggi, ogni donna e uomo di fede, è chiamato a vivere da profeta, sapendo interpretare la realtà alla luce di Dio, focalizzando il proprio vivere nella testimonianza del Buon messaggio (Gesù) e nel bene incondizionato al prossimo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 904-907).

Sotto quest'ottica, il gesto di papa Benedetto è stato doppiamente profetico: nell'accettare e nell'abdicare. Fu profetico quando accettò l'eredità di Pietro nel conclave che volle eleggerlo. Impresa per niente semplice succedere al pontificato lungo, carismatico ed apoteotico di Giovanni Paolo II. Benedetto è stato il Cireneo che con discrezione, spalle forti di esperienza e saggezza, ha saputo so-portare (nel senso positivo di: portare sostenendo) un'eredità di troppi carati e far sbocciare cose nuove (è grande, seppure forse meno visibile, l'eredità che anche lui ci ha lasciati). E al momento opportuno ha saputo passare il testimone. Per dirla in soldoni: Benedetto è stato il gradino, la rampa di congiunzione, il traghettatore tra il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di Francesco; mirabile servizio che solo il “servo umile” sa fare!

Ecco perché considero che l'accettazione del pontificato (da parte di Benedetto), insieme all'abdicazione, formino il tutt'uno di un gesto profetico. Quando la profezia è obbedienza a ciò che Dio (e non il capriccio umano) desidera realizzare, è vera profezia. Quando la profezia sa considerare compiuto il proprio mandato, è vera profezia. Quando per il bene di tutti l'istinto spirituale e razionale intuiscono che è arrivato il momento di lasciare che Dio faccia un altro passo, questa è vera profezia.

Non si tratta quindi di abbandonare la croce, ma di accettarla così come si presenta. Perché in sostanza, l'aspetto nucleare, nell'ortoprassi cristiana, non è la croce in se stessa, ma l'amore a Gesù, nel servizio (fatto del dono di se') per il bene della Chiesa e dell'umanità. È all'interno di tale servizio, inquadrato nella fedeltà a Dio e all'uomo, che la croce trova la sua collocazione. Fuori da quest'ottica fondante della fede teologale, anche il morir da papa potrebbe sfumare in una tentazione di vanagloria.

Ma queste sono semplicemente considerazioni personali e non racchiudono nessuna pretesa che vada oltre questo dato: considerazioni personali, appunto.

                                                                                                         Ignazio Cuncu Piano