Se in quest'articoletto volessi convincere ad usare
l'aggettivo “rosso” per indicare il colore verde, o che “onesto”
significa “corrotto”, o che le Alpi siano una vasta pianura; o a
dimostrare scientificamente che i telefoni hanno sentimenti, molto
probabilmente a chi legge verrebbe da sorridere, o quanto meno da
sospettare che il mio cervello cominci a far cilecca!
Eppure bisogna ammettere che in molti aspetti fondanti della vita,
noi pensiamo con la stessa distorta metrica cui sopra gli esempi,
semplicemente perché alcuni addetti ai lavori, nel passato e nel
presente, hanno avuto la disonesta abilità di adulterarci la
realtà dei fatti attraverso un perverso gioco di specchi.
Il colmo del paradosso in questa “truffa del reale” si dà
quando, assuefatti ormai al “falso storico accettato come
autentico”, sorridiamo (a mo' di presa in giro) o mugugniamo sospettosi
davanti a chi, con onesta lucidità intellettuale, vuol restituircene
l'interpretazione adeguata.
La realtà di fondo che tutti dovremmo tener presente, sempre, è che la vita risulta molto meno inquadrabile (va molto più in là) di quanto alcuni
abbiano voluto e vogliano farci credere! Lo stesso dicasi della storia trascorsa, spesso narrata in dissonanza circa la misurazione oggettiva dei fatti.
Se trasportiamo il discorso sulla realtà sarda,
potremmo soffermarci su miriadi di falsi luoghi comuni (incentivati
dall'opportunista di turno) che hanno trovato buona
accoglienza nel nostro mal nutrito bagaglio storico e nella nostra sbiadita e manipolabile
auto-percezione.
Pensiamo al più infame, falso e dannoso assioma a noi ben noto:
“niente di nuovo [cioè: di buono] è mai sorto dall'Isola”, quasi fosse
stregata da arcani e arcaici immobilismi cosmici! Mentre: “tutta la
novità è arrivata da al di là del mare”. Se ci si pensa
bene, si tratta di un'asserzione a dir poco ridicola; eppure ha fatto e fa breccia... !
Complice di tale leggenda nera è stata, fino a qualche decada
fa, una certa classe - pseudo? - intellettuale nostrana, la quale,
consapevole o meno (non sta a me giudicare), ha dato cattedra,
insegnando, o forse più banalmente, ripetendo pregiudizi storici e antropologici
scarsamente documentati.
Oggi per fortuna le cose stanno cambiando: storici ed archeologi
riportano sempre più alla luce del vero le innovazioni sorte (e a
volte esportate) in seno alle civiltà autoctone e alla vita propria
della Nazione sarda.
Dal mare son certo arrivate cose buone, ma anche guai. Che dire se si
pensa che i saccheggi di ingenti risorse sono stati (e sono) opera
dei Civilizzatori (!) di turno? Chi direbbe che il banditismo
fu incoraggiato da inique decisioni oltremare, che alterarono
l'ecosistema economico/sociale isolano, basato su tutt'altre (e più
sane) regole di convivenza? Che pensare sull'ambiguo “Piano di
Rinascita” del secondo dopoguerra, il quale, anziché favorire un
tessuto di piccole industrie sintonizzate colla vocazione
artigianale, agricola, pastorale, turistica, ha innalzato mostri
chimici, devastanti (in tutti i sensi) e precocemente fallimentari? E
le basi militari? Enormi teatri di misteriosi addestramenti a favore dell'industria delle guerre destinate a Paesi poveri (gli unici destinatari dei contemporanei conflitti bellici). E così di seguito.
Mi piace però ripetere che le cose stanno progressivamente cambiando, in
parte grazie al già citato processo di sana revisione della storia
remota e recente (cf. Omar Onnis, "Tutto quello che sai sulla
Sardegna è falso", Arkadia, 2013), in parte grazie a tante persone
di buona volontà che “coi fatti” stanno dimostrando a se stesse
e agli altri che tante stupide e false etichette non valgono le
radici ricche e profonde di un popolo dignitoso e creativo.
Certo, da qui a che cambi la mentalità ce ne vorrà ancora un po'.
Perché la mentalità, lo sappiamo, non è qualcosa che muta col solo
dato scientifico/razionale. Sedimenta nell'ambito delle emozioni e
quindi scatta in automatico, con ampio stacco sulla ragione, davanti
alle sollecitazioni che rispondono a distorte ma assimilate
rappresentazioni del reale. Con pazienza e costanza ci sarà da
ricostruire (molti, reitero, già l'hanno fatto o sono a buon punto
dell'opera) emozioni nuove basate su una "percezione reale del nostro
passato-presente", costituito, niente più e niente meno , da
cose buone e meno buone. Come succede a tutti i popoli, del resto.
Ma torniamo all'oggetto della la presente riflessione: le
innovazioni. Non tanto quelle del passato (che ce ne sono state tante) , ma del presente storico.
Cosa può significare avere capacità innovative? Non chiudersi alla
novità, ma discernerla; prendere spunto anche – perché
no? - da quelle ideate fuori casa per poi metabolizzarle, adattarle al nostro
(niente nasce da niente) o, prendere come buona una novità nata in
casa e integrarvi aspetti già messi in atto in altri
luoghi. Quest'arte eclettica vien bene solo quando si ha sana e profonda stima dell'identità culturale propria;
altrimenti si rischia il "copia-incolla" , si fanno danni e
nient'altro.
È cosa sana infatti, che i benefici di un'innovazione, per essere tali,
mai debbano alterare l'humus culturale specifico, bensì fomentarne la crescita. L'immolare sull'altare “dell'innovazione
fine a se stessa” - quand'anche apportasse un qualche iniziale (momentaneo) beneficio
economico - la dimensione identitaria, sfocerebbe
inevitabilmente in una gravissima deriva globale; quindi, alla fin
fine, anche economica. Al riguardo, Il già citato piano di rinascita
può essere un monito tristemente calzante.
Esistono azioni innovatrici, in Sardegna, oggi? Sì :
nell'ambito della politica, dell'economia, del lavoro, della cultura,
dell'arte. Ma allora, perché non si riesce a vederle, a toccarle, ad
assaporarne i frutti? Be', chiariamo innanzitutto che chi vive con
mente e cuore ben disposti verso una sana auto-percezione etnica, chi vuol cercare e
rischiare in prima persona su nuove strade...: le vede, le tocca, le
apprezza, le sperimenta, le fomenta e in molti casi ne gode i frutti
(penso al progetto “Sardex”, all'impatto positivo sulle imprese isolane, offrendo percorsi di interscambio monetario e di beni, in termini molto più umanamente sostenibili a confronto degli oppressivi circuiti bancari). Insomma: chi cerca... trova!
Si è già in tanti, per fortuna, ad aver trovato e... toccato. Ma c'è
ancora molta strada da fare. È ancora
tenace la poca autostima che ribassa il valore delle autoctone
iniziative, annichilendole dall'umiliante e irragionevole paradosso
dell'ipermetropia, che spesso ci fa mettere a fuoco solo le
cose lontane. Dovremmo decisamente far indossare occhiali da lettura
alla nostra visione della realtà, per renderci conto di come tante
novità che nascono nell'ambito vitale nostrano, portino in se' un
efficace valenza innovativa.
Eh sì, bisogna proprio ammetterlo: si mal tollera l'iniziativa nata
in casa. Arriva poi il primo illuminato d'oltremare a proporre
- perché no? - in buona fede, più o meno le stesse cose... e noi lì,
a sgranare gli occhi sulla risolutiva novità portata dalle onde : "Ma la' ca seus...!"
Nella politica questo modo di fare è palese. Si pensi ai
fatti di storia recente. Nel suffragio del febbraio 2013, sia in
Italia che in Sardegna, una significativa parte dell'elettorato ha puntato su proposte alternative, verosimilmente più trasparenti e dal
volto giovane. Un chiaro rigetto della politica stantia e
inconcludente. Una scelta che rispetto e condivido.
Ma se penso che in Sardegna, una politica dal volto ugualmente
giovane sta portando avanti proposte innovative, concrete,
intelligenti, argomentate e trasparenti (osservate con attenzione da
partiti italiani e di altre Nazioni) da circa una decada,
quindi prima che certe idee (in alcuni aspetti) simili arrivassero
dall'Italia per ricevere (dai Sardi) tanto plauso e consenso: riconosco
che un po' di rabbia sui tempismi perduti... mi assale !!
A scanso di equivoci, è bene chiarire che la responsabilità non è
di coloro che, con onesta intenzione ci porgono le loro proposte
oltremare. Ripeto: tutto ciò che è buono ed efficacemente
adattabile, venga da qui o da lì, sia bene accetto. Il problema
siamo noi e i citati pregiudizi che ci precludono ai vantaggi
immediati e più plasmanti che la valorizzazione dell'innovazione locale ci
offrirebbe.
Morale della favola: dobbiamo sganciarci una volta per tutte da
questa terribile distorsione mentale: terribile ingiustizia verso noi
stessi. Sì, terribile; solo questo superlativo dà giusto peso al
devastante paradosso di un popolo che reprime se stesso, che pensa di
non essere ciò che è o di non poter essere ciò che può essere; un
popolo che vive la favoletta del “Re nudo” ... al
contrario !!
Certo: sarebbe più comodo continuare a credere di non saper innovar
da noi stessi, ché il nostro comodo andazzo avrebbe ragion d'esistere! Però, purtroppo, tal capacità è a noi consona.
Ma! C'è un "ma" nella questione. La nostra storia parla di maggiore innovazione/ creatività, nei momenti in cui siamo stati liberi e sovrani, nei momenti in cui ci siamo autogovernati. Viceversa, la nostra stessa storia ci racconta pesantezza "nel crescere" e spesso regressione, nei periodi di forti condizionamenti (dominazioni) imposti da entità politiche esterne.
Forse, bisognerebbe rifletterne i profondi perché, analizzare se qualcosa di simile non accada ancor oggi, ed assumerne tutte le derivanti... in prima persona.
Ignazio Cuncu Piano
Ma! C'è un "ma" nella questione. La nostra storia parla di maggiore innovazione/ creatività, nei momenti in cui siamo stati liberi e sovrani, nei momenti in cui ci siamo autogovernati. Viceversa, la nostra stessa storia ci racconta pesantezza "nel crescere" e spesso regressione, nei periodi di forti condizionamenti (dominazioni) imposti da entità politiche esterne.
Forse, bisognerebbe rifletterne i profondi perché, analizzare se qualcosa di simile non accada ancor oggi, ed assumerne tutte le derivanti... in prima persona.
Ignazio Cuncu Piano