La
nota frase “abbiamo fatto l'Italia,
ora dobbiamo fare gli italiani”
attribuita al d'Azeglio, dimostra come, fino a non troppi anni fa e
tranne alcune eccezioni, gli Stati non nascevano dalla volontà
sovrana dei popoli. Si trattava di istanze
politiche/territoriali/culturali e spesso religiose, imposte
dall'alto. Praticamente il popolo “subiva” quella nuova realtà
politica. Così fu per l'Italia. Un'Italia unita sulla carta, ma
articolata in un mosaico di identità a sé stanti. È
in tale contesto che s'inserisce la
presunta frase del d'Azeglio.
Un aspetto
su cui si fece particolarmente perno per favorire il compattamento
neo-nazionale, fu quello della L(lingua). Ovvia la ragione. Una L è
molto più che un modo specifico di esprimersi. Racchiude la storia,
la mentalità(quindi la cultura, cioè il modo d'interpretare la
vita nei suoi molteplici aspetti), soprattutto se(la L) nasce nel popolo che ne fa uso. Proprio
per questa ragione, l'estensione(leggasi imposizione)della parlata
nazionale alle varie realtà regionali significò più o meno un
trauma per la Sardegna, la quale, nel nuovo panorama, portava fattori etnici più diversi. Totalmente altra dalla realtà peninsulare,
con una storia, cultura, L propria - tali da caratterizzarne una vera
e propria identità nazionale - dal momento
dell'annessione(all'Italia)è sottomessa ad un sistematico esproprio
linguistico. Non fu certo la prima volta che una L esterna invadeva l'Isola.
Non si può non ricordare, p. es., la latinizzazione che estinse la
precedente parlata, anche se poi non ne ostacolò la nuova
sintesi autoctona. Da quel momento in poi, la LS(lingua sarda), nata
nel popolo e in questi radicata, è riuscita a sopravvivere in mezzo
alle tante altre sopraggiunte nell'Isola.
Ma
l'imposizione violenta della LI(lingua italiana) sopra accennata
fu(ed è)la più capillare. La scuola diventò luogo privilegiato di forzatura psicologica sui bambini che usavano la LS come L
madre(penso alla simile sorte riservata agli scolaretti quechua-parlanti del Sud America, costretti a ripudiare la propria L a costo
di umilianti castighi). Non si sta parlando di tempi troppo remoti:
basta essere poco meno che cinquantenni per ricordare con che
severità certe/i maestre/i reprimevano gli alunni che esternavano
espressioni autoctone. Il sillogismo (contorto!) era... lineare: per parlare bene
l'italiano si doveva evitare il sardo che, per contrapposizione,
diventava una lingua grammaticalmente e morfologicamente... errata. Ché dico lingua? di dialetto si parlava!
Un dialetto
sbagliato, messo alla berlina perché sinonimo di arretratezza e
chiusura. Chi vuol avere esito professionale deve metterlo da parte.
E fu così che molti dei nostri genitori, più o
meno dalla seconda metà degli anni '50 in poi(in buona fede certo,
come i/le maestri/e del resto)cominciarono a comunicare in LI coi
figli, per garantire loro un futuro migliore. L'avvento della
televisione fece(e fa) il resto.
Com'è la
situazione attuale? Fortunatamente assistiamo ad una nuova presa di
coscienza che, almeno in teoria, ha saputo confutare quei falsi(a noi
noti) luoghi comuni creati attorno alla LS. Ma la teoria, seppure
utile, a poco servirà se la L non verrà incrementata nell'uso
quotidiano. Ci sono tre aspetti(fra altri) che darebbero forza ad un
suo ritrovato protagonismo:
1): la
volontà politica. La Regione, ehm... Autonoma(!)mettendo da parte
quell'immobilismo causante tanti svantaggi(oltre al devastante-remissivo-servilismo oltremare)deve favorire con decisione l'insegnamento
sistematico della LS nelle scuole(inclusa
la scuola materna), alla pari dell'italiano e altre lingue. C'è di
più: i politici stessi dovrebbero parlare in sardo negli ambiti dei
loro uffici, allo stesso modo dei più decisi colleghi catalani o
baschi, per intenderci. Fin'ora abbiamo assistito solo a dispendiosi
progetti, decollati forse, ma mai atterrati.
2): la
scelta degli intellettuali. Gli intellettuali sardi dovrebbero
giocare fino in fondo la carta della LS. Utilizzarla sempre, o per lo
mano, alla pari dell'italiano: 50 e 50. Come? Parlandola e
scrivendola. Pubblicando le loro opere in “limba”. Qualcosa già
si sta muovendo. Esistono opere letterarie(anche di autori
stranieri)in LS. Penso a “Lèbius ddoi
passamus me-in sa terra” di Sergio
Atzeni, o “Cronica dae una morti
annuntziada” di Garcìa Màrquez.
Felicissima al riguardo, la scelta dell'Università degli Studi di
Cagliari.
3):
l'impegno della CCL(Chiesa Cattolica Locale). Fedele agli
insegnamenti del (Concilio)Vaticano II, la CCL ha il dovere di dialogare,
valorizzare, fecondare e purificare le culture locali e, al contempo, si arricchisce attraverso di esse(cf. Gaudium et spes, 53.58). Nella storia della Chiesa, le culture dei vari popoli sono sempre state il veicolo
privilegiato per la trasmissione della fede. la fede è sempre entrata nel cuore degli uomini, nel loro cuore... inculturandosi. Nel nostro caso - nota bene! - si tratta di una fede vissuta, pregata e trasmessa in LS per quasi duemila anni!
Circa il tema in questione rimando ad altro titolo su questo stesso blog(cf. “LETTERA APERTA AI VESCOVI SARDI”). Menzionata valorizzazione, si trasformerebbe in salvaguardia e crescita culturale per tutti, a prescindere dalle personali scelte di fede.
Circa il tema in questione rimando ad altro titolo su questo stesso blog(cf. “LETTERA APERTA AI VESCOVI SARDI”). Menzionata valorizzazione, si trasformerebbe in salvaguardia e crescita culturale per tutti, a prescindere dalle personali scelte di fede.
La
determinazione di queste tre istituzioni sarebbe di grande incoraggiamento per i cittadini tutti.
Ma la realtà
attuale, a quanto pare, è proprio al rovescio. Sono infatti
associazioni culturali, alcuni movimenti politici(con ancora poco
peso istituzionale) e singoli cittadini, impegnati a difendere e
diffondere la LS e la cultura che porta in sé. Se le istituzioni,
come già espresso, potessero accoglierle e trasformarle in efficaci
decisioni politiche, staremmo in sella al senso moderno(e primigenio)
del termine “politica”.
Ma, per
dirla tutta, è pur vero che tra noi sardi non esiste ancora un
“quorum” che renda più che palpabile la volontà di... parlare
la nostra L. Su questo aspetto siamo stati remissivi fin dall'inizio,
non al pari di altre “isole linguistiche”nello stesso panorama
italiano. Ed è anche vero che oggi, molti sardi, si vergognano di
parlare la loro L, causa quei preconcetti che proprio tale
obbiettivo(screditare la LS)perseguivano.
Mi soffermo
su due (preconcetti) :
1):
L'USO DELLA LS PRECLUDE L'APERTURA VERSO L'ITALIA E IL RESTO DEL
MONDO. Niente di più falso!
È
proprio la rinuncia alla propria L che crea ripiego su se stessi, che
chiude. Nemmeno l'insularità... isola, come molti credono (cf. sullo stesso blog: "Isolani o isolati?"). Il riapproprio della L, può facilmente abbinarsi ad
un articolato processo di rivalorizzazione della propria cultura,
della propria identità. Tutto ciò favorirebbe il felice
innalzamento dell'autostima: la coscienza di valere per se stessi, e
non perché supportati da un'entità culturale vicaria. Ed è proprio
da tale autostima, da questo “sano
orgoglio della propria identità”
che scaturisce, a mio avviso, un'equilibrata valorizzazione delle
altre culture, la capacità e la gioia di comunicare con gli altri
popoli, alla pari, arricchendoci ed arricchendo(in termini di cultura
e di giusta economia). L'autostima culturale fomenta l'amore verso il
territorio, la sua cura, e di conseguenza favorisce la creatività
economica, rendendola affine all'ambiente, efficace ed ecologica.
Forse pochi sanno che i Friulani, da buoni custodi della propria
cultura, delle proprie parlate(quindi del territorio ed
economia)hanno ottenuto la personalizzazione dei prodotti
col “Made
in Friuli”(s'immagini
quali vantaggi da un “Made
in Sardinia”!).
Un popolo sorretto da questo sano orgoglio difficilmente sa farsi
“calpestare in casa propria”, come succede - ahinoi! - ai Sardi.
Sarà l'ibrido bilico tra due identità malamente mischiate fra
loro(l'alterità italiana e la nostra), la causa di quella
“schizofrenia culturale”
che tanto abbruttisce il nostro esistere?
I popoli ai quali fu usurpato(specie se per mano ispanica)l'humus culturale, presentano in genere aspetti affini: poca
autostima, frustrante dicotomia identitaria, isolamento, scarsa
sovranità in casa propria, poco stimolo alla creatività, economia
mendicante, inadeguata e con devastante impatto ambientale.
Torniamo all'uso corrente del sardo. Nel nostro specifico, usare la
LS nel quotidiano significherebbe, automaticamente, parlare due
lingue: la LS per l'appunto e la LI. Ormai l'apprendimento della LI è
un dato acquisito. Attraverso i media e la massiccia letteratura,
questa L viene appresa quasi-spontaneamente. Il “poco sforzo”
nell'apprendimento della LI, libera ampie risorse, nell'ambito della
scuola, per insegnamento di L altre. Ricapitolando: realtà
bilingue(due lingue naturalmente apprese: LS e LI) + : altre L
apprese sistematicamente nella scuola = : una notevole
apertura linguistica (quasi superfluo ricordare come i popoli
bilingui sono maggiormente predisposti ad apprenderne altre. Forse
non è casuale che estimatori e promotori della LS a livello locale
ed internazionale, siano persone parlanti più L).
2): QUALE VARIANTE USARE? QUAL'È IL VERO
SARDO...? Per fortuna gli specialisti hanno superato quest'altra
inutile diatriba(la più antipatica secondo me).
Prima di penetrare la questione una semplice premessa psicologica:
quando ci si appassiona ad una causa, tutti gli ostacoli diventano
pressoché relativi. Quando invece si è demotivati, quegli stessi
ostacoli si tramutano in barriere insormontabili! Personalmente credo
che il secondo atteggiamento abbia fatto da sottofondo all'approccio
di molti verso l'argomento che si sta trattando, trasformando quello
delle più parlate(congenite alla LS)nell'eterno insormontabile
dilemma. Entriamo nel vivo della questione.
In
alcuni casi, per affrontare un problema, può esser di buon
preludio... rivoltarlo. Sì, rivoltarlo... da capo a fondo.
Osservarlo dalla prospettiva opposta. Applicando al nostro caso
questo elementare metodo, potremmo regalarci una piacevole sorpresa:
le varietà della LS si
trasformano in un... vantaggio, un valore aggiunto, una... enorme
ricchezza linguistica!
È
questo
dato
di fatto estremamente positivo che dovrebbe fare da basamento ad ogni
salutare iniziativa intorno alla LS.
Come
sappiamo, i due rami costitutivi della LS - il SL(Logudorese) e il
SC(Campidanese) - hanno pari dignità; nessuna delle due è più o
meno autentica dell'altra(altro falso e paralizzante pregiudizio
smentito dall'attuale linguistica – cf. Bolognesi Roberto, Heeringa
Wilbert, 2005. Sardegna
fra tante lingue. Condaghes:
Cagliari). E siccome di varianti si tratta(e non di lingue opposte),
le similitudini superano di gran lunga le diversità. Basterebbe
confrontare in sinopsi uno stesso periodo scritto in SL e SC per
accorgersene. Per questa ragione i sardi dovrebbero interloquire in
sardo, usando ognuno la propria variante. Sarebbe un inizio
interessante, addirittura divertente: un bel gioco. Quando un gioco
piace, le incognite ne diventano l'aspetto più stimolante.
Immaginiamo un dialogo tra una giovane universitaria di Tonara ed una
sua compagna, p. es., di Sestu. Rispettando una prudenziale cadenza
pausata, si accorgerebbero che la differenza tra i termini non
impedisce la reciproca comprensione. Per quanto riguarda i vocaboli
che proprio non si capiscano, sarebbe parte del... gioco, chiederne
significato. Un po' come facevano mio padre(agricoltore campidanese)e
tziu Peddio(pastore di Desulo): s'intrattenevano lunghi momenti a
parlare, in campagna, a discutere sui pascoli, a litigare, eccetera.
Quando qualcuno non capiva l'altro, ne chiedeva il significato. Una
volta memorizzata la parola,ognuno dei due, per dare celerità al
discorso(specie se era animato)al momento opportuno usava il termine
dell'interlocutore. Se fu possibile per un pastore e per un
agricoltore...!
Un interscambio di questo tipo arricchirebbe ognuno di noi, in breve
tempo, di un'enorme quantità di termini nuovi... di nuove
espressioni, favorendo un bagaglio linguistico formidabile. Sarebbe
un inizio graduale e non toccherebbe suscettibilità circa la
rinuncia subitanea delle parlate locali. Più volte ho partecipato a
conferenze “in limba”. Le esposizioni dei dissertanti, fatta
nelle due varianti (includendo le specificità regionali e paesane:
altra-ulteriore-ricchezza!)si sono sempre rivelate esaustivamente
comprensibili. L'attenzione e – perché no? - lo sforzo(esiste
conquista senza sforzo?)per capirsi, rendeva la conversazione assai
più stimolante ed interessante.
Credo che da questo non complicato interscambio parlato e scritto fra
tutti i “varianti-parlanti”, possa nascere in forma spontanea,
una sorta de LS Koinè, che potrebbe essere, forse, la piattaforma
per una L più unificata. Non bisogna aver paura di far, diciamo,
mischiare le parlate sarde: ciò che ne verrebbe fuori sarebbe sempre
un prodotto... sardo. decisamente meglio delle attuali parlate “sardo
ibride”(che personalmente detesto)prodotte dalla massiccia
infiltrazione di termini e morfologie italiane.
Altre L presentano simili ramificazioni/diversificazioni: il russo,il
castigliano, il quechua, l'arabo, lo stesso inglese; diversità che
non impedisce la standardizzazione grammaticale.
E
di regole grammaticali bisogna parlare anche per la LS. Quest'aspetto
può essere assolto dall'ambito più connaturale: la scuola. Non
possiedo idee chiare in proposito; considero però realista e
graduale il suggerimento espresso nell'introduzione(e seguenti
pagine) di “Arregulas
po ortografia, fonetica, morfologia e fueddariu dae sa norma
campidanesa”(Comitau
Scientìficu po sa norma campidanesa dae su sardu standard
campidanesu patrocinau dae sa Provincia dae Casteddu, 2009.
Alfa):
insegnare la grammatica in accordo con le due varianti. Una volta
poste solide basi sulla propria variante, nelle classi superiori gli
alunni potranno avere approcci con: morfologia e grammatica di quella
opposta(SL per gli studenti dell'area campidanese e viceversa)e –
perché no? - un'interessante infarinatura sulle altre lingue
dell'isola. Si pensi poi a quante felici iniziative si potrebbero
inventare per rafforzare conoscenze:interscambi culturali tra
studenti, eccetera. Credo invece che l'approccio letterario possa
essere fatto fin dall'inizio con le due varianti.
Non sarebbe realistico chiudere il discorso senza fare menzione alle
appena citate L, che sommano “ricchezza alla ricchezza”: il
Tabarchino, il Gallurese, il Catalano; e mettiamoci pure
“s'Arromanisca” dei ramai di Isili(chi potrebbe essere così
culturalmente miope, da non vedere la nostra Isola come un prezioso
scrigno stracolmo di variegato tesoro linguistico?).
Anche per queste isole linguistiche vale quanto più sopra espresso:
vanno protette ed insegnate nei rispettivi luoghi. Possibile
obiezione: un bambino catalano dovrebbe già essere in grado di
parlare: LC, SL e LI, alle quali si aggiunga, p. e. , l'inglese et
altre lingue? Proprio così. Inserire un bambino, fin dai primi passi, in
una realtà multilingue vissuta nel quotidiano e saggiamente
articolata dalla scuola: è cosa fattibile... è cosa ottima... è
cosa auspicabile. Alcuni miei carissimi amici indiani, fin da bambini convivono connaturati con la loro lingua, con quella delle regioni limitrofe, coll'Indi e con l'inglese. I Paraguaiani che vivono al confine col Brasile parlano: guaranì, castigliano e brasiliano. Molti giovani altoatesini parlano: tedesco, italiano e inglese. Sono molti i belgi che parlano: fiammingo, francese, tedesco e inglese, oltre che, in alcuni casi, i dialetti locali. Molti giovani friulani parlano: furlan, italiano, inglese, francese e, in alcuni casi, qualche lingua slava. Questi solo alcuni esempi.
Non priviamoci della nostra ricchezza linguistica, la quale, tra l'altro, grazie al sano paradosso più sopra argomentato, ci apre ad altre lingue! Non priviamoci di conoscere tutte le nostre lingue (patrimonio dell'umanità)! Ridurci a parlare solo l'italiano in mezzo a cotanta ricchezza linguistica è un suicidio culturale!
Non priviamoci della nostra ricchezza linguistica, la quale, tra l'altro, grazie al sano paradosso più sopra argomentato, ci apre ad altre lingue! Non priviamoci di conoscere tutte le nostre lingue (patrimonio dell'umanità)! Ridurci a parlare solo l'italiano in mezzo a cotanta ricchezza linguistica è un suicidio culturale!
La differenza che intercorre tra dismettere la LS (processo attuale, sig!)
per incunearci nel solo orizzonte italiano, ed il processo
multilingue(fin'ora ipotizzato)ai fini di una sana apertura verso se
stessi e i popoli, credo appaia notevole.
Naturalmente il mio è un sogno dall'identità amatoriale(non sono un
linguista). Menti specializzate possono disegnare progetti di più
sostenuta efficacia. Ma... fateli! Linguisti... Specialisti...
Regione Autonoma: realizzateli per favore!
Nel mondo esistono migliaia di lingue: ciascuna racchiude ed
interpreta una cultura: vero e proprio patrimonio dell'umanità.
Preservare la LS dovrebbe per noi avere anche questo senso: un
dovere; uno stimolante dovere verso l'umanità tutta.
Alcuni,
inquadrando la nostra L all'interno di un irreversibile processo di
estinzione, congedano le tematiche fin'ora affrontate con un laconico
e remissivo:“Ormai!”.
Valga l'esempio del Popolo Ebreo(ammirabile per la sua millenaria
difficile ma tenace lotta identitaria). Oltre a creare una Nazione dal
nulla(1948), ha saputo riesumare e, in certo modo reinventare, la
propria lingua, praticamente morta.
La LS non è morta. Seppure maltrattata e umiliata, è viva. Salvare
questo “patrimonio dell'umanità” ancora si può. Siamo ancora in
tempo per omaggiare le giovani generazioni col prezioso bagaglio
culturale a nostra volta ricevuto in eredità. Ma sbrighiamoci... il
tempo stringe.
Ignazio Cuncu Piano.
Ignazio Cuncu Piano.
“La
vita è un grande gioco. Giochiamo questo gioco! Non limitiamoci a
guardar giocare gli altri. Non contentiamoci che qualcuno giochi al
posto nostro”.
(cf. Robert Baden Powell)
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