domenica 12 maggio 2013

BEN OLTRE GLI ALLORI - (dal blog: UNCOMUNECITTADINO, 12 maggio 2013)

Giorni fa mi è sorto il desiderio di rimembrare, aiutandomi con qualche youtube appropriato, le vicende che videro come protagonisti: il Cagliari, Gigi Riva, i suoi compagni di squadra e il popolo sardo. Mi soffermai più che altro su una registrazione che raccontava questa sorta di epopea, su un filo conduttore tracciato dallo stesso ex calciatore. Non nascondo d'esser stato toccato emotivamente, poiché, seppure piccolo all'epoca, le emozioni dello scudetto e delle prodezze del “goleador”, le potei respirare tutte attraverso l'entusiasmo generale degli adulti chi vivevano intorno a me.

In questa “intervista-documentario”, Gigi Riva parte dagli inizi, nel suo paese d'origine: Leggiuno. Ne rimarca l'infanzia, l'adolescenza e la gioventù segnata dalla prematura morte dei genitori, dagli anni cupi trascorsi in un collegio-internato caratterizzato da una severità fuori luogo, dalle varie circostanze difficili che colpivano i bambini orfani e poveri degli anni '40 e '50. Drammi che ne segnarono l'esistenza, il carattere; drammi che col tempo si son trasformati in saggezza ed empatia con chi soffre. Drammi che nemmeno l'esuberante carriera professionale è riuscita a colmare del tutto, se quasi alla soglia dei settant'anni, quest'uomo  sente ancora di dover dichiarare: “Sarei disposto a rinunciare a molte glorie che la vita mi ha offerto, per un'infanzia diversa”.

Ma a volte la vita è bene guardarla al contrario, o al rovescio se si vuole. Si, al rovescio, come le magliette che a volte indossano alcuni giovani. Eh sì, perché a volte, guardando la vita al rovescio, si possono scorgere svantaggi che si trasformano in... vantaggi. E io credo che  nel giovane Gigi Riva, quella perfetta simbiosi tra carriera calcistica, legame affettivo e identificazione quasi-etnica con un popolo popolo che come lui era segnato da una storia umiliata e sofferente, sia sorto proprio dal desiderio di trovare, insieme a questo popolo che ha saputo capirlo, amarlo e rispettarlo, il rovescio di questa comune storia di sofferenza.

È per questo motivo che la  storia di Gigi Riva è molto più di una brillante carriera calcistica. ed è per questo motivo che la sua storia porta il sapore originalissimo di quegli avvenenti che sanno smentire i tradizionali (e a volte banali) sillogismi così come la filosofia aristotelica ce li ha insegnati: “Il giovane calciatore varesino è più che promettente; e siccome si muove nella geografia dei grandi club calcistici del nord Italia , ergo: una di quelle squadre sarà la sua naturale culla di glorie!”.

Mentre invece... niente di tutto ciò, anzi il contrario! Il rovescio. Un rovescio inizialmente offerto dal caso (non fu lui a decidere di approdare nell'Isola, anzi...!), ma poi: un rovescio fatto proprio da una serie di decisioni personali e umanamente vincenti.

Ma torinamo a un po' di cronaca. Nel '63 viene acquistato dal Cagliari e ivi approda, con la forte (ma non profetica) percezione di non rimanerci troppo a lungo su quel lido così lontano dall'Italia, con un prato da gioco evanescente, più simile al poco distante deserto sahariano, che a un tappeto calcistico dovutamente amministrato.

Forse, a pensarci adesso, sono proprio questi umili esordi che, per la paradossale legge del contrasto, daranno più enfasi ai trionfi ottenuti in seguito e all'attaccamento affettivo ed effettivo verso la squadra e le genti sarde. Perché non v'è gloria più sentita che quella costruita dal basso, dall'umile (e umiliato) substrato, contro venti e maree, senza che nessuno ti regali niente. E nel Cagliari di quei tempi, di umile c'era proprio tutto: la condizione della squadra, il Popolo che le faceva da cornice, il già menzionato campo da gioco, il carattere di quel giovane lombardo appena sbarcato. E i legami più veri e duraturi, solitamente, portano il marchio di quell'umiltà che nasce dalla dignità e produce dignità.

Conosciamo tutti gli sviluppi di quel sodalizio che ebbe come apice agonistico lo scudetto del '70, ma che in termini umani ha superato di gran lunga le glorie calcistiche.

Così, in quegli anni, si scrissero forse i tratti più salienti della storia di una squadra che seppe ascendere le vette calcistiche grazie ad un felice amalgama che faceva perno senz'altro nella genialità di Riva, ma anche nella saggezza degli allenatori (si pensi a un Manlio Scopigno) e nell'affiatamento e professionalità degli altri giocatori, malgrado arbitri disonesti, spesso senza troppo nascondere, durante le partite favorissero le grandi squadre del nord. Ma il Cagliari era diventato una "grande squadra". E l'evidenza, si sa, non è un opinione, e  non la si può nascondere. Non è un caso che in quegli stessi anni l'organico della Nazionale azzurra integrasse diversi giocatori Rossoblu.

Ma torniamo a Gigi Riva. Ci sono aspetti nella personalità di quest'uomo che per la loro peculiarità fanno da controluce allo scandaloso mercanteggio dell'odierno calcio. Mi riferisco a quegli storici rifiuti opposti alle insistenti e insinuose proposte dalle grosse società calcistiche di allora. Molti ricorderanno l'umiliante paradosso a cui sottostette l'Inter, che offrì (senza esito) cifre esorbitanti pur di acquistare quel giocatore che qualche anno prima essa stessa aveva scartato in un provino (Riva giocava ancora nel Leggiuno).

Che effetto farebbero, oggi, nel mondo del calcio, quei “signorili rifiuti” da parte di un giocatore, che potendo toccare tutti i cieli con un dito, scarta la possibilità di tracciare la propria carriera nelle più quotate Associazioni calcistiche italiane ed europee dell'epoca?

Sappiamo bene che la decisione di rimanere “nel Cagliari e a Cagliari”, va ben oltre il fatto sportivo e la fedeltà alla squadra, ma soprattutto a un popolo che lo ama in maniera così congeniale al suo carattere, s'inquadra in una fedeltà dalla semantica quasi sponsale: “nella buona e nella cattiva sorte”. La squadra del capoluogo sardo ha attraversato infatti vicissitudini diverse: fase ascendente, scudetto, fase di alti-bassi e fase discendente. Soprattutto in fase calante, chissà, un giocatore del suo calibro avrebbe potuto benissimo maturare l'idea di congedare i Quattromori. Non sarebbe stato difficlile imbastire una più che sacrosanta motivazione: “Carissimi: vi ho dato anni della mia carriera, della mia bravura. Non eravate nessuno: vi ho portato alle stelle. Ora lasciatemi seguire i miei sogni sotto altri riflettori. Ne ho pur diritto, non vi pare?”.

Sono quasi sicuro che se così fosse andata, il popolo sardo avrebbe rispettato con riconoscente nobiltà le decisioni di questo figlio adottivo. Chi avrebbe potuto sindacare simile argomentazione, in cui il nobile altruismo cede passo a lecite esigenze personali? Insomma: un “arrivederci e... non ringraziatemi: è stato bello anche per me...!”

Invece no. Quelle frasi non ci sono mai state e la decisione fu altra.

Tutto ciò, reitero, porta sapore di una scelta che non si limitò alla sola gloria - quella gloria che viene e che va! - ma che mise sulla bilancia altri aspetti, altre esperienze fatte “fuori campo”. Quali? Non so: penso forse all'ospitalità sincera, umile, dal tono familiare e un po' ingenua che spesso manifestiamo noi Sardi verso i forestieri. Quell'ospitalità generosa che sa dare molto, troppo o tutto di se': nell'abbondanza e nella restrizione. Quella stessa ospitalità che a volte si fida troppo e, a volte, rischia di essere fraintesa, abusata e manipolata da ospiti col sorriso di gomma e dal cuore ingordo, come c'insegnano alcuni episodi della nostra storia.

Nel caso di Gigi Riva quell'ospitalità trovò terreno buono: collimò con un “cuore nobile alla ricerca di sentimenti nobili”, come, per esempio, l'affetto di una famiglia. La famiglia frustrata dalla prematura moorte dei genitori. E malgrado l'affetto di una sorella che gli fece da madre, nel profondo del suo animo, quel bisogno di famiglia era ancora un vuoto da colmare. E quel vuoto - chi l'avrebbe mai detto? - si stava in parte colmando perché - o che cosa strana! - un... popolo lo stava... adottando: “Si creò dentro di me un punto d'appoggio importante; c'era il pescatore che […] ti portava a casa sua, ti faceva mangiare con i suoi figli, ti trattava come un parente. E lì pian pianino mi sono accorto che mi stavo appoggiando ad una Regione, ad una città che mi stava dando una seconda famiglia”.

E di famiglia - come già rimarcato - quel giovanotto prematuramente orfano e lontano dai luoghi e dagli affetti natii, ne sente forte bisogno; come tutte le persone dai sentimenti sani, del resto.

C'è forse un altro aspetto che ha fatto buon gioco a questo spontaneo connubio: la custodia della riservatezza. Un Popolo riservato che tutto sommato seppe rispettare e... custodire la riservatezza e privatezza di un uomo al quale volle e vuole bene. Un Popolo che seppe rispettare e custodire la riservatezza di un uomo che dà molto rilievo a quest'aspetto.

Una simbiosi creatasi spontaneamente tra un ragazzo riservato (e forse un po' introverso) ed un Popolo riservato (e forse un po' introverso). Una simbiosi che forse ha fatto scoprire a questo giovane del lontano nord, un affetto lietamente "strano" (nel senso di: diverso, altro) verso una terra e una Gente dignitosamente... strana (nel senso di: diversa, altra). Sì, strana, cioè diversa, come lo è un artista fertile di geniali novità, come lo è (per fortuna) ogni persona, come lo è ogni entità dalla forte identità-personalità propria. Quella diversità che noi Sardi (per il susseguirsi di pilotate e artificiali pressioni ideologiche e politiche che ci fanno essere ciò che, in realtà, non siamo) autopercepiamo in maniera confusa e tossica, passando dallo sterile euforismo circa una sardità per niente fondante, allo scimmiottamento dell'alterità al peggior stile "copia-incolla". È con quest'atteggiamento schizofrenico che molti Sardi hanno vissuto l'euforia dello Scudetto.

Chissà! Che forse quel giovanotto scelse di farsi adottare da questa "strana Isola", proprio perché seppe cogliere più di noi (con quell'obbiettività che a volte favorisce chi osserva "dal di fuori") quelle sottili linee di identità che innobiliscono la personalità del nostro Popolo, ma da noi percepite - per quel perverso e  non casuale gioco di specchi cui sopra - come "marchio di inferiorità"? 

Mi rendo conto che fin'ora ho evocato l'epopea di Riva in modo forse troppo scevro da punti grigi. Senz'altro ce ne sono stati. Una storia non è mai del tutto rosea.

Anche allora per esempio esistevano aspetti soggetti alla polemica. Penso ai conflitti di opinioni scaturiti alla vigilia della costruzione del nuovo stadio, in una Cagliari che aveva urgenza di certi servizi primari (come un nuovo ospedale, a detta di molti). Penso alle polemiche sulll'appoggio economico offerto dalla Regione alla squadra Rossoblu. Penso alla stessa retribuzione del Nostro, ingente se proporzionata ai tempi.  Penso allo zampino dei vari Moratti, Rovelli, nefasti Feudatari della Sardegna di quei tempi. Fomentando l'euforia sportiva, i loro velenosi affari (velenosi in tutti i sensi) fruiti dai mostri chimici collocati nell'Isola (costruiti coi soldi dei Sardi), si sarebbero ingraziati  un po' più di bonomia popolare. Anche per la fiammante Nazione (con tanto di "dogana razziale") adiacente alla Sardegna, ribattezzata "Costa Smeralda" (il suo vero nome è "Monti di Mola"), lo Scudetto avrebbe significato una prestigiosa reclame. Penso ai problemi personali che, immagino, può aver avuto Riva nella vita personale.

Ma al di là di tutto ciò, il rapporto tra quest'uomo timido e l'Isola ha saputo collocarsi molto oltre i confini contrattuali, divenendo così una storia fatta di di calore umano e non di compravendita mascherata da sorrisi di gomma.

Ed è proprio quest'ultimo aspetto che la rende: bella, nobile e ancor oggi non appassente.

                                                                                                     Ignazio Cuncu Piano

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