domenica 4 novembre 2012

UN'ISOLA DI CONSUMATORI?

Qualche mese fa sono stato ad Alba (Cuneo) con persone amiche. Osservavo come la campagna circostante, oltre che dai tipici vigneti, fosse in buona parte ricoperta da noccioleti. Una persona del posto ci ha spiegato. Si tratta di colture piuttosto recenti. In pratica un “ripiego”(il termine non è il più adatto) di molti giovani a causa della disoccupazione. Così, i terreni incolti dei padri sono stati riabilitati a fonte di sostentamento. Tra l'altro, a quanto pare: le nocciole rendono.
Un ritorno a ciò che fu abbandonato per l'industria. Un ritorno, tutto sommato, non traumatico. Un ritorno che, in maniera silenziosa ma capillare, sta avvenendo in più luoghi. Col mio confratello(sardo anche lui)ci siamo guardati, intuendo che pensavamo la stessa cosa: “ E da noi, con tanti disoccupati, non si potrebbe... ?”. Il ritorno alla campagna, anche in Sardegna, non è certo questione di bucolico romanticismo; nemmeno dev'essere frutto di sola necessità economica(che può esserne il legittimo detonatore), bensì: autentico riapproprio identitario. È noto a tutti come nel secondo dopoguerra, la scriteriata imposizione di un'industria massiva, non sintonica col territorio, ampiamente dispendiosa (impiego  laborale minimo  proporzionato alla popolazione. Insomma: fu, è più il danno che il guadagno) e prematuramente fallimentare, abbia inutilmente sconvolto la nostra cultura agro-pastorale-artigianale, creando alterazioni socio-economiche di grave portata. Ancora ne paghiamo le conseguenze sui due fronti, visto che per certi aspetti stiamo perdendo capra e cavoli (industria e agricoltura).
Non è tutta responsabilità dell'industria; altre istanze (la Comunità Europea, verbigrazia) hanno fatto(e fanno) il loro gioco. Ricordo in proposito quando negli anni '70 mio padre(agricoltore) parlava del famoso “premio”(?!!) per chi estirpasse le proprie vigne. E così abbiamo perso circa il 70% del patrimonio viticolo! Eppoi è arrivato il turno dei carciofi(eravamo i maggiori produttori tra i '70 e gli '80), delle barbabietole, del grano, del latte, ...

Non è nemmeno tutta colpa degli altri. Per certi aspetti siamo stati noi a lasciarci fare o a non voler più fare. Alcune Regioni, per esempio, non hanno accettato così docilmente lo sfoltimento delle colture tradizionali; o per lo meno, hanno preteso ulteriori incentivi per dar luogo a redditizie alternative.

Non è colpa nemmeno del mare: “Il mare penalizza”. Ci è stato sempre detto: “ Aumenta i costi di esportazione...”. C'è del vero in tutto ciò. Ma: attenzione! Come mai il mare non impedisce la massiccia importazione di ogni sorta di prodotti? Come mai i famigerati costi addizionali di trasporto non incidono sul prezzo addirittura inferiore agli equivalenti prodotti locali? Un risparmio al minuto che, paradossalmente, impoverisce il complessivo assetto economico dell'Isola, favorendo una situazione di stallo. Un agricoltore amico, di un paese ad alta vocazione orticola, fu lapidario: “La concorrenza del mercato oltremare ci spiazza!”. Non è quindi il mare la causa dei nostri problemi, ma i percorsi di mercato tracciati ad arbitrio di alcuni per pilotarne i profitti.
Influisce non poco la nostra ritrosia a consorziarci. Penso ai pastori: quanto meglio si potrebbe piazzare il nostro buon latte e i suoi ottimi prodotti (in Sardegna ed oltre) se ci si unisse in solide cooperative di vendita capaci di trattare direttamente con le piazze, bypassando grossisti o imprenditori sanguisuga? Qualcosa in questo senso, pian pianino si sta muovendo. Sarà questione di continuare e non demordere: abbiamo un'alta qualità che vale la pena dichiarare e difendere, con aderenti nomenclature d'origine! Quindi: niente fuorvianti/sovrapposti “Romani Pecorini ruba-meriti(e danari!)” o quant'altro. In questo caso sarebbe più che opportuno optare per la battaglia (vinta) dei Friulani, che hano ottenuto, per i propri prodotti, il marchio "Made in Friuli" ! 

Al momento la nostra realtà non è quindi tra le migliori. Suddetti peripli economici, purtroppo, hanno fatto di noi un'Isola di Consumatori! Consumiamo prodotti che potremmo coltivare nel nostro privilegiato clima: ammortizzando costi, gustando sapori, favorendo dignitoso benessere nel territorio, limitando l'inquinamento del pianeta. Le nostre campagne invece languiscono ampiamente incolte, spesso ridotte a pattume; umiliate nella loro generosa capacità di offrirci bontà nostrane a portata di mano.

In tutti i modi, è da ammettere che la minaccia peggiore (per l'agricoltura), è che siamo diventati troppo... comodi! E qui, più o meno, tutto il mondo è paese! Ma, ahinoi, la brutta piega ci si ritorce contro in tutto l'orbe, perché schifare la terra equivale a sputare nel piatto in cui mangi!
Il tema è complesso. Ma il “ritorno alla terra” è una questione da affrontare seriamente, a livello planetario, in un futuro più che prossimo. Un passo difficile ma dovuto e in parte, come già sopra, in atto. In valli montane, pianure, possiamo incontrare giovani vocati all'allevamento e alle colture, abbinando spesso le sagge usanze dei bisnonni ad attuali(e spesso inedite) tecniche. Scelte coraggiose, in molti casi avviate da zero. Scelte che non sempre rispondono a necessità economiche, ma al desiderio di ritrovare un nuovo stile di vita: in armonia con l'ambiente, con meno pretese economiche, prescindente da costose cianfrusaglie, densa di soddisfazioni autentiche.
Anche nell'Isola si possono contemplare felici iniziative su questa linea: aziende agricole ben amministrate, coltivazioni biologiche, sperimentazioni innovative, filiere corte, allevamenti genuini, agriturismi ben curati,... paesi che s'impegnano a valorizzare meglio i prodotti (anche attraverso sagre, feste, pagine internet),... La speranza è che queste cose belle e buone progrediscano, onde creare una positività strutturale. Per il momento ci sono ancora troppi... vuoti, in mezzo.
Alcuni paesi, per esempio, hanno dismesso con certa leggerezza la vocazione campestre. I motivi possono essere plausibili: agricoltori e allevatori sono penalizzati. Penso alla disparità tra i prezzi dei macchinari, concimi, mangimi e quelli dei prodotti... Insomma: tanto sacrificio e poco tornaconto(chi non dipende direttamente “dalla terra”, forse non può capire del tutto...).
Ha inciso anche il parziale ricambio generazionale: molti figli si sono orientati verso altre scelte. Esistono poi cause locali, che variano da paese a paese. Non sarebbe male che ogni comunità si desse occasioni per rifletterci su.
E l'industria? Va del tutto esorcizzata? No. In Sardegna non è fallita l'industria, ma: l'industria così concepita. La mastodontica Chimica di cui sopra: inconciliabile con la realtà nostrana. Un pugno nell'occhio per il delicatissimo equilibrio ecologico dell'Isola! - “Facile dirlo col senno del poi!” -   Non è proprio così. Ai tempi, più voci chiamarono in causa l'opinione pubblica, la classe politica, suggerendo alternative contenute, più simbiotiche, all'insegna della novità nella continuità. Voci inascoltate! L'affanno per italianizzare Sandalios al miglior stile “copia-incolla” , il profitto di pochi - politica complice -, ebbero la meglio.

In tutti i modi, ciò che conta è che oggi un cambiamento di rotta è possibile! Gli esempi ci sono. I noccioleti albesi citati in proemio. I tanti orti che stanno nascendo nelle periferie cittadine. Penso alla regione della Ruhr (Germania) che sta riconvertendo la sua trascorsa dedizione all'industria mineraria...
Miniere! Il pensiero volge alla cara regione del Sulcis, alla tradizione mineraria che i giovani vogliono mantenere come prospettiva di lavoro. La miniera per loro è una realtà radicata, tramandata da padre in figlio. D'altro canto però, non si può non osservare un Sulcis ove il lavoro agricolo sia ampiamente sguarnito. Le cause sono varie e complesse, dalle radici profonde. Potremmo addirittura risalire alle Compagnie inglesi che tra il XIX e XX secolo, impossessandosi di parte del territorio violentarono la vocazione agro-pastorale di queste genti obbligandole al massacrante ed insalubre lavoro del sottosuolo, pagandole con buoni da consumare in empori delle Compagnie medesime, creando apposite differenze sociali, facendo in modo che i bambini non avessero altra prospettiva se non la miniera, favorendo una mentalità schiavizzante, a senso unico.

Torniamo al cambiamento di rotta. Sarà possibile nell'Isola? Sì. Si può e si deve. Così come siamo, non si andrà avanti per molto. Come si cambia? Con creatività, rischiando di persona, convincendoci sempre più che i nostri interessi interessano solo a... noi(e quindi - noi -  dobbiamo difenderli, rimboccandoci - noi! - le maniche, sapendo che dall'alto, cioè dalla politica, in questo momento storico, c'è poco-niente da aspettarsi), mettendo da parte quell'apatica “comodità delegante”, sulla quale abbiamo imparato a piangere abbastanza... comodamente. 
                                                                                                        (Ignazio Cuncu Piano) 

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