Qualche mese fa sono
stato ad Alba (Cuneo) con persone amiche. Osservavo come la campagna
circostante, oltre che dai tipici vigneti, fosse in buona parte
ricoperta da noccioleti. Una persona del posto ci ha spiegato. Si
tratta di colture piuttosto recenti. In pratica un “ripiego”(il
termine non è il più adatto) di molti giovani a causa della
disoccupazione. Così, i terreni incolti dei padri sono stati
riabilitati a fonte di sostentamento. Tra l'altro, a quanto pare: le
nocciole rendono.
Un ritorno a ciò che fu
abbandonato per l'industria. Un ritorno, tutto sommato, non traumatico.
Un ritorno che, in maniera silenziosa ma capillare, sta avvenendo in
più luoghi. Col mio confratello(sardo anche lui)ci siamo guardati,
intuendo che pensavamo la stessa cosa: “ E da noi, con tanti
disoccupati, non si potrebbe... ?”. Il
ritorno alla campagna, anche in Sardegna, non è certo questione di
bucolico romanticismo; nemmeno dev'essere frutto di sola necessità
economica(che può esserne il legittimo detonatore), bensì:
autentico riapproprio identitario. È
noto
a tutti come nel secondo dopoguerra, la scriteriata imposizione
di un'industria massiva, non sintonica col territorio, ampiamente dispendiosa (impiego laborale minimo proporzionato alla popolazione. Insomma: fu, è più il danno che il
guadagno) e prematuramente fallimentare, abbia inutilmente sconvolto
la nostra cultura agro-pastorale-artigianale, creando alterazioni
socio-economiche di grave portata. Ancora ne paghiamo le conseguenze
sui due fronti, visto che per certi aspetti stiamo perdendo capra e
cavoli (industria e agricoltura).
Non
è tutta responsabilità dell'industria; altre istanze (la Comunità
Europea, verbigrazia) hanno fatto(e fanno) il loro gioco. Ricordo in proposito quando negli anni '70 mio padre(agricoltore) parlava del
famoso “premio”(?!!) per chi estirpasse le proprie vigne. E così
abbiamo perso circa il 70% del patrimonio viticolo! Eppoi è arrivato
il turno dei carciofi(eravamo i maggiori produttori tra i '70 e gli
'80), delle barbabietole, del grano, del latte, ...
Non è nemmeno tutta colpa degli altri. Per certi aspetti siamo stati
noi a lasciarci fare o a non voler più fare. Alcune Regioni, per
esempio, non hanno accettato così docilmente lo sfoltimento delle
colture tradizionali; o per lo meno, hanno preteso ulteriori
incentivi per dar luogo a redditizie alternative.
Non
è colpa nemmeno del mare: “Il mare penalizza”.
Ci è stato sempre detto: “ Aumenta i costi di
esportazione...”. C'è del
vero in tutto ciò. Ma: attenzione! Come mai il mare non impedisce la
massiccia importazione di ogni sorta di prodotti? Come mai i
famigerati costi addizionali di trasporto non incidono sul prezzo
addirittura inferiore agli equivalenti prodotti locali? Un risparmio
al minuto che, paradossalmente, impoverisce il complessivo assetto
economico dell'Isola, favorendo una situazione di stallo. Un
agricoltore amico, di un paese ad alta vocazione orticola, fu
lapidario: “La concorrenza del mercato oltremare ci
spiazza!”. Non è
quindi il mare la causa dei nostri problemi, ma i percorsi di mercato
tracciati ad arbitrio di alcuni per pilotarne i profitti.
Influisce
non poco la nostra ritrosia a consorziarci.
Penso ai pastori: quanto meglio si potrebbe piazzare il nostro buon
latte e i suoi ottimi prodotti (in Sardegna ed oltre) se ci si unisse in solide
cooperative di vendita capaci di trattare direttamente con le piazze,
bypassando grossisti o imprenditori sanguisuga? Qualcosa in questo senso, pian
pianino si sta muovendo. Sarà questione di continuare e non
demordere: abbiamo un'alta qualità che vale la pena dichiarare e
difendere, con aderenti nomenclature d'origine! Quindi: niente fuorvianti/sovrapposti
“Romani Pecorini ruba-meriti(e danari!)” o quant'altro. In questo caso sarebbe più che opportuno optare per la battaglia (vinta) dei Friulani, che hano ottenuto, per i propri prodotti, il marchio "Made in Friuli" !
Al momento
la nostra realtà non è quindi tra le migliori. Suddetti peripli economici,
purtroppo, hanno fatto di noi un'Isola
di Consumatori!
Consumiamo prodotti che potremmo coltivare nel nostro privilegiato
clima: ammortizzando costi, gustando sapori, favorendo dignitoso
benessere nel territorio, limitando
l'inquinamento del pianeta.
Le nostre campagne invece languiscono ampiamente incolte, spesso
ridotte a pattume; umiliate nella loro generosa capacità di offrirci
bontà nostrane a portata di mano.
In
tutti i modi, è da ammettere che la minaccia peggiore (per
l'agricoltura), è che siamo diventati troppo... comodi! E qui, più
o meno, tutto il mondo è paese! Ma, ahinoi, la brutta piega ci si
ritorce contro in tutto l'orbe, perché schifare la terra equivale a
sputare nel piatto in cui mangi!
Il
tema è complesso. Ma il “ritorno alla terra” è una questione da
affrontare seriamente, a livello planetario, in un futuro più che
prossimo. Un passo difficile ma dovuto e in parte, come già sopra,
in atto. In valli montane, pianure, possiamo incontrare giovani
vocati all'allevamento e alle colture, abbinando spesso le sagge
usanze dei bisnonni ad attuali(e spesso inedite) tecniche. Scelte
coraggiose, in molti casi avviate da zero. Scelte che non sempre
rispondono a necessità economiche, ma al desiderio di ritrovare un
nuovo stile di vita: in armonia con l'ambiente, con meno pretese
economiche, prescindente da costose cianfrusaglie, densa di
soddisfazioni autentiche.
Anche
nell'Isola si possono contemplare felici iniziative su questa linea:
aziende agricole ben amministrate, coltivazioni biologiche,
sperimentazioni innovative, filiere corte, allevamenti genuini,
agriturismi ben curati,... paesi che s'impegnano a valorizzare
meglio i prodotti (anche attraverso sagre, feste, pagine
internet),... La speranza è che queste cose belle e buone
progrediscano, onde creare una positività strutturale. Per il
momento ci sono ancora troppi... vuoti, in mezzo.
Alcuni
paesi, per esempio, hanno dismesso con certa leggerezza la vocazione
campestre. I motivi possono essere plausibili: agricoltori e
allevatori sono penalizzati. Penso alla disparità tra i prezzi dei
macchinari, concimi, mangimi e quelli dei prodotti... Insomma: tanto
sacrificio e poco tornaconto(chi non dipende direttamente “dalla
terra”, forse non può capire del tutto...).
Ha
inciso anche il parziale ricambio generazionale: molti figli si sono
orientati verso altre scelte. Esistono poi cause locali, che variano
da paese a paese. Non sarebbe male che ogni comunità si desse
occasioni per rifletterci su.
E
l'industria? Va del tutto esorcizzata? No. In Sardegna non è fallita
l'industria, ma: l'industria così concepita. La mastodontica Chimica
di cui sopra: inconciliabile con la realtà nostrana. Un pugno
nell'occhio per il delicatissimo equilibrio ecologico dell'Isola! -
“Facile dirlo col senno del poi!” -
Non è proprio così. Ai tempi, più voci chiamarono in causa
l'opinione pubblica, la classe politica, suggerendo alternative
contenute, più simbiotiche, all'insegna della novità nella
continuità. Voci inascoltate! L'affanno per italianizzare Sandalios
al miglior stile “copia-incolla” , il profitto di pochi - politica
complice -, ebbero la meglio.
In
tutti i modi, ciò che conta è che oggi un cambiamento di rotta è
possibile! Gli esempi ci sono. I noccioleti albesi citati in proemio. I tanti orti che stanno nascendo nelle periferie cittadine. Penso
alla regione della Ruhr (Germania) che sta riconvertendo la sua
trascorsa dedizione all'industria mineraria...
Miniere!
Il pensiero volge alla cara regione del Sulcis, alla tradizione
mineraria che i giovani vogliono mantenere come prospettiva di
lavoro. La miniera per loro è una realtà radicata, tramandata da
padre in figlio. D'altro canto però, non si può non osservare un
Sulcis ove il lavoro agricolo sia ampiamente sguarnito. Le cause sono
varie e complesse, dalle radici profonde. Potremmo addirittura
risalire alle Compagnie inglesi che tra il XIX e XX secolo,
impossessandosi di parte del territorio violentarono la vocazione
agro-pastorale di queste genti obbligandole al massacrante ed
insalubre lavoro del sottosuolo, pagandole con buoni da consumare in
empori delle Compagnie medesime, creando apposite differenze sociali,
facendo in modo che i bambini non avessero altra prospettiva se non
la miniera, favorendo una mentalità schiavizzante, a senso unico.
Torniamo
al cambiamento di rotta. Sarà possibile nell'Isola? Sì. Si può e
si deve. Così come siamo, non si andrà avanti per molto. Come si
cambia? Con creatività, rischiando di persona, convincendoci sempre più che i nostri interessi interessano solo a... noi(e quindi - noi - dobbiamo difenderli, rimboccandoci - noi! - le maniche, sapendo che dall'alto, cioè dalla politica, in questo momento storico, c'è poco-niente da aspettarsi), mettendo da parte
quell'apatica “comodità delegante”, sulla quale abbiamo imparato
a piangere abbastanza... comodamente.
(Ignazio Cuncu Piano)
(Ignazio Cuncu Piano)
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